Mi emoziona essere qui oggi, nell’ultimo incontro pubblico in cui rivesto il ruolo di presidente della Federazione, a chiudere un percorso affrontando una tematica che ritengo basilare per tutto il nostro futuro, la chiave di volta del nostro futuro come Federazione, come singole Comunità, come educatori: le sfide della Prevenzione. Di questa opportunità ringrazio di cuore la rete prevenzione e tutti i centri che in questi anni hanno creduto in questo cammino che definirei di speranza e di profezia.

Intervento del Presidente FICT al convegno “Prevenzione nel nulla… E se la chiamassimo educazione e promozione della connettività sociale?”

Negli ultimi venti anni, l’attenzione alla Prevenzione è aumentata considerevolmente: convegni, incontri, pubblicazioni, ricerche, corsi specialistici di formazione ed aggiornamento, addirittura insegnamenti dedicati in molti atenei. Di prevenzione se ne parla e se ne scrive molto di più che in passato.

Ma c’è qualcosa che non torna. Nel frattempo, l’uso di droghe sembra essere cresciuto o, quantomeno, divenuto più complesso e capillare: abbassamento dell’età di primo contatto, riduzione dei costi sul mercato, maggiore varietà, trasversalità tra le fasce di popolazione, l’esplosione della cocaina, la proliferazione incontrollabile di nuove sostanze… c’è qualcosa che non torna. Ad A non corrisponde B! Perché?

Provando a sintetizzare e a mettere insieme, in modo forse poco accurato ma essenziale, i  risultati di questo interesse teorico,  possiamo certamente sostenere che la prevenzione oggi è intesa come un concetto dinamico, un costrutto olistico che si muove tra le categorie di disagio e salute, salute intesa, come l’OMS suggerisce,  “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Persino le posizioni più deterministiche, come quelle che muovono dai preziosi contributi delle neuroscienze finiscono per sottolineare e supportare l’idea di un approccio multifattoriale, continuativo e globale, attento alle caratteristiche biologiche quanto a quelle psico-sociali.

Passando pertanto, dalla teoria alla prassi, sembra che due siano le strade necessarie per attivare quei percorsi di prevenzione che paiono sempre più improrogabili: educazione e politica.

Le due gambe su cui la prevenzione può camminare, le uniche che possano puntare a contrastare le dipendenze costruendo salute. Educazione e politica!  … due realtà in crisi grave.

Che il mondo dell’educazione sia in crisi è sotto gli occhi di tutti. Nel variegato mondo del sociale troppo spesso l’educazione diventa una parola, un concetto quasi demodè … sembra poco scientifico, poco tecnico puntare sull’educazione in un mondo sempre più clinicizzato e medicalizzato.

Anche nei classici territori dell’educare,  la clinica, con le sue ricette a breve termine, prende sempre più spazio, persino nelle nostre comunità, sempre più terapeutiche e sempre meno educative, sempre più cliniche e meno comunità.

La mia, è chiaro, non vuole essere una critica tout court della scienza medica, della cliniche, delle terapie psicologiche o psichiatriche, ma una messa in discussione di risposte che tendono ad essere troppo semplici per problemi complessi.

Cercherò di essere più chiaro utilizzando un antico mito greco: Asclepio, o Esculapio, dio della medicina, aveva due figlie: Panacea, la cura di ogni male, la terapia, ed Igea, la salute, la promozione, la prevenzione.

Quello che ritengo necessario oggi è riunire queste due figlie in un unico cammino di salvezza. Consapevoli del rischio che un affidamento esclusivo al potere della farmacologia potrebbe, paradossalmente, ottenere l’effetto inverso di un aumento di quell’additività culturale che ci spinge sempre più a cercare una risposta esterna ad ogni problema del nostro vivere: pillole per dimagrire, per dormire, per l’ansia, per lavorare, per fare l’amore …

Un ulteriore sintomo evidente di questa crisi dell’educare è nella confusione che regna tra le figure formate a tale compito, la mancanza di albi professionali, di garanzie … ma soprattutto è evidente nella più vasta crisi valoriale del mondo adulto. Siamo poco educatori.

C’è una sfida educativa che stiamo perdendo, e non è pessimismo. La stiamo perdendo tutti. L’intero mondo adulto. La perdiamo quando deleghiamo la responsabilità del nostro educare ad altri: è compito della scuola, è compito della famiglia, della chiesa, del volontariato … è compito di tutti fuorché mio!

La perdiamo quando improvvisiamo interventi preventivi che servono solo a chi li realizza, senza preparazione, senza obiettivi chiari, senza ascolto. Mi colpisce molto il dato che per la maggior parte delle attività di prevenzione, infatti, si usi come metodologia le lezioni frontali e gli incontri seminariali … ancora! Per non parlare del dato che mette in risalto le prassi valutative dei progetti di prevenzione!

C’è da chiedersi se il modo di affrontare il problema della tossicodipendenza sia solo quello di cercare di inculcare a fasce giovanili la paura delle sostanze e non, invece, insieme ai giovani costruire scenari condivisi e futuri.

Perdiamo questa sfida quando i nostri cammini nascono dalla volontà di singoli, restando asfittici, non sistemici, non integrati. Perdiamo cercando risposte semplici a problemi complessi.

Credo allora che per non uscire sconfitti dalla sfida più importante del nostro tempo, quella educativa, dobbiamo essere concreti. Credo che sia necessario stabilire delle priorità, non solo teoriche, ma politiche, economiche, di programmazione ed investimento.

E anche se investire in questa direzione può sembrare sprecare tempo, non avere risultati immediatamente visibili, non avere ritorno economico e d’immagine, ricordiamoci che educare è un’arte difficile. Educare è dare ai ragazzi un sogno alto, che in realtà loro custodiscono già nel loro cuore, accompagnandoli per renderlo segno.

Responsabilità e credibilità, è quello che ci chiedono i ragazzi.

L’ultima volta che li ho incontrati, questi ragazzi della mia città ascoltavano un disco di un cantante molto amato da loro. La canzone che cantavano diceva così: “Non voglio essere capito. Voglio Essere. Capito?”

Ecco il programma. Pedagogico, politico, esistenziale. Su questo programma necessario dobbiamo camminare da testimoni, giocandoci la credibilità e con essa giocandoci il futuro ed il presente, nostro e del mondo che abbiamo in prestito.

Mi viene alla mente una favola straordinaria, la storia di una terra minacciata dal Nulla che avanza inesorabile, ingoiando ogni cosa, persone, ricordi, paesaggi, speranze. Nella Storia Infinita il regno di Fantàsia è minacciato dal nero del Nulla;  il nostro paese, le nostre città sono minacciate da un nulla fatto di varie sostanze ma altrettanto spietato, altrettanto capace di divorare storie e progetti, sogni e bisogni. Nella storia di Ende ci sono due personaggi che si contrappongono al nulla: il primo è Atreyu, il forte, l’eroe per definizione, con il cavallo bianco e lo sguardo fisso, col cuore senza macchia e senza paura. Noi, un eroe così, non ce l’abbiamo, purtroppo o per fortuna, Brecht diceva “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”…

Poi c’è l’altro personaggio, Bastian, il pavido, il ragazzino intimorito dai potenti e dai prepotenti, il solitario, il sognatore. Bastian che non sa più comunicare con i suoi amici, con suo padre. Bastian che porta dentro un dolore. Bastian che è ognuno di noi. Che, alla fine, sconfigge il Nulla.

Nel romanzo, un personaggio  negativo, l’ambasciatore del nulla, spiega: “Fantàsia muore perché la gente ha rinunciato a sperare e dimentica i propri sogni, così Il Nulla dilaga, poiché esso è la disperazione che ci circonda. Io ho fatto in modo di aiutarlo, poiché è più facile comandare chi non crede in niente”

Ecco perché la nostra deve essere innanzitutto una battaglia di speranza e di pensiero, una lotta educativa di ricostruzione dell’umano contro tutto ciò che lo mortifica ogni giorno in ognuno di noi.

E mi chiedo, ormai da anni, quali sono gli strumenti che ci possono consentire di portare avanti una lotta di questo genere?

Risposte cercate negli anni, insieme ai giovani che incontro ed agli operatori, risposte ripetute fin troppo spesso

Di fatto la realtà che osservo mi dimostra in modo lampante quanto queste risposte necessarie siano rimaste di fatto inascoltate, marginali, non siano diventate sistemiche e prioritarie, ma restino quasi l’impegno di una minoranza di operatori sociali votati a questo o l’attenzione momentanea e sfuggente di qualche campagna informativa. Bastian è ancora troppo solo. E questa solitudine spaventa, fa venire l’orrenda tentazione della resa, la voglia insana ma umana di abbandonarsi al nulla, di non andare avanti perché non vale la pena.

Mi chiedo infatti, se è da anni che questi temi  sono al centro dell’attenzione delle politiche di intervento, degli studi della comunità scientifica, come è possibile che ancora si faccia talmente poco per far diventare le parole realtà, le proposte impegno?

Vale la pena parlare ancora una volta della centralità delle agenzie educative mentre la scuola viene depotenziata in nome di bilanci pubblici da tenere in bilico?

Vale la pena parlare ancora di coerenza educativa quando lo stesso Stato che, a ragione, grida a gran voce i danni delle sostanze d’abuso, contemporaneamente, con un’acrobazia valoriale, batte cassa sul gioco e sull’alcol? Vale ancora la pena di parlare di coerenza educativa, di chiedere una società educante, una pluralità coerente e compatta di voci in questo senso, di aspettarsi uno Stato-educatore?

Vale ancora la pena di parlare di valori, di chiederne la testimonianza coerente e viva?

E mi chiedo con forza oggi: vale la pena di continuare il nostro lavoro di comunità, circondati dalle difficoltà economiche e sociali, costretti a tagli che rendono impossibile il lavoro, tagli fatti in nome dei bilanci da risanare, fatti a causa degli sprechi di altri e dell’arricchimento di altri e a danno dei più poveri, di chi sta peggio, di chi ha già pagato? Le comunità calabresi rischiano di chiudere in nome dei conti economici: un altro regalo alle fauci del Nulla. Del resto è più facile scegliere i più deboli da sacrificare, in un apparato politico ed economico in cui la tossicodipendenza è di fatto la cenerentola della sanità, il vaso di terracotta tra i vasi di ferro dei sistemi clientelari.  Tra nord e centro-sud il divario di risorse per le dipendenze è abnorme, e comunque insufficiente. Per cui in generale in Italia esiste una Sanità di serie A ed una di serie B, per le dipendenze invece esiste una Sanità di serie C al nord ed una non classificata al Centro Sud.

Ne vale ancora la pena? Si chiede Bastian chiudendo di colpo il libro, rifiutandosi di leggere oltre… Si, si risponde, riaprendolo tremante.

Ne vale la pena non per un eroismo donchisciottesco o per essere contro. Ne vale la pena perché sono i nostri valori, le nostre scelte, la nostra storia a dircelo e ad insegnarcelo.

Perchè non possono avere ragione gli oscuri profeti del nichilismo ed i massimalisti del profitto, i testimonial del Nulla.

Ne vale la pena perché sentiamo profondamente dentro di noi un bisogno vivo di umanità, di rendere umana questa umanità, nonostante le incongruenze.

Un sogno forse, ma un sogno che dà la direzione, indica la meta, diventa progetto. C’è una strada, o forse molte strade che portano verso questa meta. Strade che passano immancabilmente dalla consapevolezza di esserci, di essere veri e vivi, camminanti in trasformazione continua, camminanti che non si possono fermare perché l’effetto di questa consapevolezza è l’impegno. C’è strada da fare allora, ma contemporaneamente da costruire, da realizzare, passo dopo passo, scegliendo con cura le pietre che andranno a formare il nostro selciato, mantenendo acceso il nostro senso critico, aiutando chi cresce a tirarlo fuori.

È importante tirare fuori un aspetto cardine dell’educazione: educare al senso critico vuol dire aprire le porte al cambiamento, a questa umanità che cerchiamo, vuol dire resistere al nulla che avanza come nella Storia Infinita, vuol dire, soprattutto, credere ad un risveglio, riaprire il libro. È solo risvegliando la linfa che giace in ciascuno di noi che possiamo opporci a quello che ci minaccia da fuori. Se allora da fuori arrivano le pressioni omologanti, l’imperativo al successo, le sostanze… da dentro, all’opposto provengono i nostri valori, la linfa viva che fa rinascere l’albero dopo ogni inverno.

La strada dei valori è insieme, perciò, la strada di questo sogno, di un sogno grande e possibile, che ci libera dalle catene e dal male di vivere, il sogno di un’umanità finalmente umana. E, se la meta è chiara, la meta è il sogno, il punto di partenza è la nostra stessa realtà, la nostra umanità individuale e collettiva di ora, è quello che siamo diventati. La partenza inizia dalle nostre povertà, dai nostri limiti, il primo compagno di viaggio da abbracciare e prendere per mano è la nostra fragilità, il noi stessi che rifiutiamo, che ci fa paura, ci fa sentire inadeguati.

Nessuno può essere realmente sé stesso se non ha imparato ad abbracciare con delicatezza e rispetto le proprie fragilità.

Ed allora ecco le due parole chiave, le due parole pesanti, da vivere, che volevo lasciarvi: la Libertà e la Fragilità.

Nella storia di Ende gli eroi sono guidati da un gioiello, un amuleto che rappresenta insieme il bene ed il male e che porta incise le parole “fai ciò che vuoi”, cioè sii libero, compi le tue scelte. È la libertà che ci fa pensare criticamente, che ci fa opporre al nulla, che ci fa costruire il bene.

Libertà per scegliere di stare insieme all’altro, fragilità per accogliere se stesso nell’altro.

La battaglia che ci aspetta è una battaglia culturale profonda, che non si può limitare a piccole oasi di ristoro, ma che deve affrontare nuovamente le ragioni del vivere e del come vivere.

Dobbiamo farci avanguardia e detentori di un pensiero nuovo che, rimettendo al centro il valore della persona, esprima con passione quell’“I care” che don Milani ci ha insegnato a dire.

Ed infine, dobbiamo avere il coraggio di riappropriarci della strada. Torniamo sulla strada, lì da dove, di fatto, siamo partiti. Ma attenti: torniamoci non tanto nell’ottica della riduzione del danno, pur sacrosanta, ma nell’ottica di una più impegnativa relazione educativa reale con le persone che incontriamo, nei loro luoghi, nelle loro vite, lì dove i ragazzi consumano il tempo, per un futuro possibile, difficile, arduo, ma possibile. E reale!

In conclusione rimangono tante domande aperte e, per quello che mi riguarda, una sola risposta: ne vale ancora la pena. Non mi sono stancato di costruire questa strada verso il Sogno, di costruirla istante per istante, col sudore e con l’impegno, con i compagni di viaggio che la strada stessa mi vorrà donare. Consapevole che forse, camminare su questa strada è più che andare verso la meta, è già la meta.

Bastian cerca compagni di viaggio: astenersi perditempo!

 

di Sac. Mimmo Battaglia – Presidente FICT