I have a dream mi sono detto quando verso la fine del primo decennio del nuovo secolo ho cominciato a riflettere sul significato della Giustizia Riparativa.
Il primo pensiero va al concetto di riparazione: siamo abituati a cercare di aggiustare le cose che si sono fratturate, dalle parti del nostro corpo agli oggetti che inavvertitamente danneggiamo.
Il secondo pensiero va al concetto di frattura intesa come momento di distruzione seguita dal tentativo di “rimettere a posto”
E’ proprio questo il terzo concetto su cui mi sono soffermato come operatore di giustizia ed anche come educatore. Proprio la connessione tra giustizia ed educazione mi ha indotto a studiare il fenomeno di riparazione nell’ambito della giustizia, come soluzione ai problemi sociali.
La dottrina giuridica analizza il fenomeno della giustizia partendo dal rifiuto del modello retributivo perché fallimentare. Tale rifiuto si afferma con la carta Costituzionale la quale introduce l’ideale riabilitativo sancito dall’art. 27. Per la prima volta la sanzione viene vista come momento educativo che tende alla riabilitazione del condannato, alla trasformazione di un soggetto che ha violato una norma in modo tale da renderlo idoneo a vivere all’interno del contesto sociale abiurando la sanzione quale forma di mera: il carcere.
Ci vorranno ancora alcuni anni perché si rifletta sulla possibilità del superamento del carcere con l’introduzione delle misure alternative quale facilitazione all’inclusione sociale.
Tale modello ha una valenza reo-centrica, il soggetto che ha sbagliato viene posto al centro dell’intervento mentre quello che ha subito la violazione resta sullo sfondo di un sistema processuale che non garantisce affatto la ristorazione del danno patito.
Ed ecco che sul finire degli anni novanta, anche in forza di un sistema normativo che tende a garantire la sicurezza, si giunge ad una mediazione tra la sete di giustizia invocata e la necessità di educare il reo.
Si affaccia la Giustizia riparativa che stenta ad affermarsi perché ritenuta utopica e difficoltosa. Essa vuole riportare la vittima a tornare protagonista del sistema.
Così come viene concepita, però, rischia la deriva nella valenza vittimo-centrica, per cui studi approfonditi intendono affermare un principio di equilibrio che parte proprio dalla frattura sociale che l’azione delittuosa ha determinato. Tale equilibrio pone al centro dell’intervento la relazione perduta, tra autore e vittima, tra autore e società.
Questo modo di concepire la giustizia, fondato sull’incontro, vuole rimettere le cose a posto attraverso la responsabilizzazione dell’individuo rispetto alla frattura determinata con il proprio comportamento indirizzando la riflessione del reo sul ruolo assunto dalla vittima, a prescindere dalla reale possibilità di favorire un incontro fisico con la stessa.
Si tratta di un modello creativo che pone al centro del sistema giudiziario un momento foriero di benessere sociale mediante il recupero della relazione tra individui e con la comunità.
La Comunità sociale diventa protagonista di un intervento di rete che tende a prevenire future violazioni.
Si parla di terza strada, parallela ai modelli apparentemente superati ma ancora fortemente radicati nel sistema processuale.
In realtà non sono pienamente d’accordo, non ritengo che la giustizia riparativa rappresenti un modello alternativo a quello riabilitativo affermato dalla Costituzione: ritengo, invece, si tratti di una piena realizzazione di quest’ultimo.
Non possiamo negare che la riabilitazione del soggetto debba passare attraverso una profonda riflessione su una delle fratture determinate: quella personale, quella che lo esclude dal contesto sociale in cui è auspicabile faccia ritorno.
Come possiamo differenziare la riabilitazione dell’individuo dalla riparazione del sé e della relazione frantumata? Come possiamo ritenere di trovarci di fronte a modelli differenti? Come possiamo pensare che un individuo che ha violato le norme possa riprendere il proprio ruolo senza rivedere la relazione con il contesto sociale e con la persona che ha danneggiato?
Ritengo sia impossibile educare senza responsabilizzare; che sia impossibile non coniugare l’aspetto educativo con quello riparativo. E’ pericoloso irrogare sanzioni senza offrire opportunità inclusive, è pericolo offrire tali opportunità senza ripristinare la relazione.
E’ pericoloso non “rimettere le cose a posto”
La sfida della “messa alla prova” sembra rispondere a questa esigenza, tuttavia necessità di ulteriori aggiustamenti perché così come è concepita rischia di evidenziare solo escamotage giudiziari senza indurre ad una reale riflessione sulla frattura sociale.
Allora continuo a dire come un mantra I have a dream: sogno che l’integrazione di queste componenti sia il motore fondante del nostro sistema giudiziario. In questo modo invece di generare sofferenza produrrà benessere individuale e collettivo attraverso la stimolazione di abilità, speranza, coraggio ed efficacia collettiva.
Noi della Federazione delle Comunità Terapeutiche (F.I.C.T), laddove interveniamo sul disagio, abbiamo deciso di raccogliere questa sfida e creare benessere attraverso la formazione dei nostri operatori per valorizzarne il ruolo educativo.
L’incontro tra professionisti del diritto ed educatori apre la strada ad un sistema di rete più efficace determinando un linguaggio comune.
Il termine “incontro” rappresenta ancora la base del sistema.
La riflessione è aperta!

di Marco Cafiero – avvocato penalista, consulente F.I.C.T.