Tra le categorie di persone fragili che, in questo periodo di contagio da coronavirus e nonostante esso, sono in difficoltà, non possiamo non ricordare le centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in tutta Italia, costrette nelle loro comunità di recupero dalle dipendenze di vario genere (in primis da droga, ma anche da alcol e gioco d’azzardo). E con loro le migliaia di operatori che hanno non solo l’obbligo ma anche il vincolo etico dell’assistenza sanitaria e della gestione educativa, per non interrompere il loro percorso.
Di questo non se parla, ancora. Forse qualcuno potrebbe dire: mal voluto non è mai troppo! Eppure siamo in presenza di una grande realtà di persone in difficoltà che hanno deciso, attraverso i Servizi sanitari delle ASL preposti (i SER.D.), di affrontare le loro patologie in un’ottica di cambiamento e di riappropriazione della loro vita. Tra questi, un numero crescente di minori e giovani adulti.
Come cambia la loro vita “confinata” al tempo del coronavirus?
Potremmo affermare che essi vivono una sorta di quarantena obbligatoria: vietata ogni uscita, abolite tutte le attività laboratoriali, sia esterne che interne, bloccate le visite dei familiari, come pure ogni incontro protetto per i progetti genitoriali a partire dai percorsi “mamma-bambino, ma non solo. Tanti ospiti sono anche padri o madri, pur se in ricovero transitorio individuale. Anche le attività educative e terapeutiche non possono essere più gestite in gruppo, ma solo individualmente, a partire dagli interventi psicologici, oltre, ovviamente, alle visite mediche e alla somministrazione farmaci.
Nella vita quotidiana, si cerca di assumere i comportamenti prescritti dalle direzioni sanitarie, che si rifanno alle regole più generali dettate dalle autorità competenti: lavaggio frequente delle mani, rispetto della distanza minima, non assembramento, nemmeno per giocare, uso delle mascherine quando necessario e soprattutto uso di guanti e disinfestazione costante di tutte le superfici comuni, che sono infinite in una comunità chiusa: tavoli, sedie, attrezzature varie a partire da quelle di cucina, strumenti dei laboratori vari (musica, palestra, biblioteca, officine, ecc.), materiali per il gioco. Altra misura cautelativa è anche quella della predisposizioni di camere per gestire eventuali casi di isolamento dovuti a forme influenzali sospette, in modo da tutelare tutti gli altri.
Oltre a tutto ciò, agli utenti viene a mancare un’altra grande risorsa da sempre fondamentale nel loro precorso: i volontari. Sappiamo tutti come la stragrande maggioranza delle comunità di recupero siano sorte per l’impegno di tante associazioni di volontariato guidate da persone dotate di carisma e dedizione agli ultimi, spesso religiosi, ma anche tanti laici, che hanno messo a disposizione tutta la loro vita. Il contributo dei volontari non è solo un supporto, pur importantissimo, agli operatori, ma soprattutto una iniezione di affetto, di vicinanza, di integrazione motivazionale non giudicante, particolarmente essenziale là dove scarsa è la presenza della famiglia.
Tutto questo lo stiamo vivendo anche nelle comunità del Ceis di Pistoia che ho l’onore di rappresentare e nelle quali ancor più forte è il ricorso alla nostra filosofia costituente: il Progetto Uomo. Mai come ora acquista senso vedere i nostri ragazzi nella loro dimensione totale di uomini e donne, una dimensione che travalica il contingente e che dà dignità fondante alla persona in quanto tale.
In tal senso assume un significato ancora più forte l’impegno dei nostri operatori, che, nel rispetto di ogni loro diritto di lavoratori, a partire dalle misure di sicurezza operativa e personale, hanno nel loro agire quotidiano una forte aderenza di senso. A loro va un ringraziamento eccezionale, un incoraggiamento speciale, con la speranza che siano il più possibile preservati dai rischi del loro agire. Ma, direbbe qualcuno, sono persone come tutti i lavoratori. È vero, ma nella cura degli altri, come avviene nelle altre strutture socio sanitarie a partire soprattutto dagli ospedali, non si tratta di produrre o commercializzare beni, ma di stare in prima linea per e con chi ha bisogno di aiuto e che non può fare a meno di dire: io resto in comunità.

Franco Burchietti – Presidente Ceis Pistoia