Mia cara Geltrude, scelgo di scrivere queste poche righe e parlare direttamente con te. Forse per dirti quelle cose che non sono mai riuscito a dirti tutte le volte che nella tua malattia ci siamo incontrati e neanche quelle volte che ci sentivamo per telefono. Sono molto addolorato di non essere stato presente al tuo ultimo saluto purtroppo per causa di miei motivi di salute, ma ero accanto a te con il cuore, così come lo sono stati tutti i nostri amici che ti hanno conosciuta in Federazione.

un ricordo su Suor Geltrude, fondatrice del Ceis di Pistoia

Ricordi i nostri ultimi incontri? Tu stavi su una carrozzella e, quando alla fine, mi hai chiesto di pregare con te, proprio in quel momento ho capito che la carrozzella era il simbolo di quello che è sempre avvenuto nella tua esistenza: un Altro ti portava. Anche dove tu non volevi.

Geltrude, tu sei stata testimone credibile  di ciò che compie l’Amore.

La croce per te, fino all’ultimo istante, è stato il tuo strumento di lavoro, la componente essenziale della tua particolarissima maternità spirituale. E il motivo è uno solo: eri innamorata. Follemente innamorata.

Eri divorata da una passione incontenibile. Il patire è la conseguenza inevitabile dell’essere appassionati.

Può una suora assolvere? Se assolvere vuol dire sciogliere, ebbene, tu hai sciolto parecchi gomitoli arruffati, grumi di disperazione, disgrazie che schiacciavano come macigni.

Il tuo era il servizio della speranza, della consolazione. Da te ho imparato che consolare è comunicare vita. Voglia di vivere.

Consolazione è una presenza che libera dall’isolamento, va ad abitare nella solitudine di qualcuno per farne un luogo di comunione. Consolazione è capacità di suscitare, nel vuoto più desolante, la tenerezza di Dio.

Io consolo quando permetto che l’esistenza di un fratello, ferita, spenta, a pezzi, poggi sulla stessa fiducia che sorregge la mia vita. Perciò  consolare significa “dare cuore”. Tutta la tua vita fu un “dare cuore”. Il tuo cuore ha lo stesso profumo dell’Eucarestia: profumo di pane. Perciò profumo di umanità, umanità vera.

Ed è per questo che voglio esprimerti a nome mio personale e a nome di tutta la federazione, il grazie più sentito dal profondo del cuore.

Ti sei lasciata investire dalle sofferenze di coloro che erano stati travolti dal dolore, hai saputo sopportare l’urto tremendo del dolore degli altri e, curandoti di loro, reggendoli in braccio, col cuore di madre, hai cercato per quanto ti è stato permesso, di amarli.

Nella tua vita, nelle tue scelte non è mai scomparsa la persona con la sua dignità; per tanti di noi, invece, la persona è solo un caso clinico. Tu ci hai insegnato che quando la persona perde il suo volto, il nome, diventa solo un numero. E quando  diventa numero, interessante è il suo “caso”, non la sua persona.

Il rischio di tanti è che anche oggi possiamo “passare accanto” o “passare oltre” l’uomo, perfino quando affermiamo solennemente che ce ne “prendiamo cura”.

Di gente capace ce n’è fin troppa in giro nelle nostre comunità.Se c’è una situazione in cui una persona desidererebbe trovare cuore, sentimento, e non semplicemente intelligenza e bravura, questa è proprio la situazione di dolore.

Invece, di fronte alle tecniche, di fronte ad una “burocrazia”, alle “rivendicazioni sindacali”, ogni  persona nota una carenza spaventosa in fatto di cuore, di partecipazione umana.

Il medico più capace non è quello che ottiene risultati più sensazionali, ma quello che riesce a far posto al malato nella sua totalità. Altrimenti anche la guarigione definita completa sarà sempre parziale.

Oggi si ha la pretesa di accostarci esclusivamente dalla parte di quella che chiamiamo professionalità e spesso la professionalità si fa, a sua volta, rappresentare, delega la propria parte ai farmaci, agli esami. Il contatto, il rapporto, invece, può avvenire soltanto attraverso l’incontro tra due persone. L’umanità è un grosso rischio, che pochi hanno il coraggio di affrontare. Perché si tratta di mettere in gioco il proprio cuore, i propri sentimenti, la propria sensibilità, il proprio tempo, mettere a nudo ciò che siamo. Si preferisce purtroppo farsi sostituire, rappresentare dalle capacità tecniche e professionali e così il “camice” diventa la divisa del personaggio, il segno del ruolo, la corazza che ripara. La persona dell’altro la incontri solo se smetti di recitare il personaggio e ti fai a tua volta persona, senza vergognarti nè del tuo cuore, né  delle tue lacrime. E’ questa l’eredità che ci consegni.

Geltrude cara, credo anch’io nell’utopia evangelica secondo cui, per andare incontro alle persone che soffrono, ferite, spezzate dentro, non si può concepire il proprio impegno esclusivamente come mestiere e preparazione tecnica, organizzazione, ma occorre interpretare la vita in chiave di vocazione e il proprio ruolo in una prospettiva di scelte.

Grazie sorella, amica e madre Geltrude: vorrei che fossi tu a pregare ancora, per tutti noi, per tutti i nostri operatori e per tutti i nostri volontari perché tutti sappiamo cogliere il valore e il significato delle nostre mani consacrate. Più cuore nelle mani. E invoca per noi dal Signore la benedizione perché ci lasciamo contagiare dalla malattia che ha colpito te, “malata di carità e di tenerezza”. E il Signore dilati sempre più il nostro cuore e lo destini alla circolazione della speranza per tutti. Benedici tutti noi Geltrude e grazie per l’offertorio della tua vita.

Don Mimmo Battaglia -Presidente FICT