Il cittadino comune sembra avvertire, ogni giorno di più, un senso di resa nei confronti della lotta alla tossicodipendenza, ma non si tratta di un dato reale, solo di un senso di smarrimento degli operatori nel fronteggiare un fenomeno che si diversifica sempre di più, per cui i collaudati strumenti di intervento appaiono obsoleti. La sfida riposa nell’inventare con estrema rapidità contesti terapeutico/educativi adeguati alle nuove dipendenze.

Giornata di studio – Carcere e dipendenze: verso nuove procedure, organizzata dal Ser.T Casa Circondariale Genova Marassi ASL 3 Genovese

Il carcere, però, resta un territorio prolifico di disagio e sofferenza che induce gli operatori pubblici e privati a fornire risposte salvifiche che rispondano ad esigenze di sicurezza sociale e costituiscano alternative alla pena con lo slogan “il carcere non recupera”.

Ed è profondamente vero anche se ormai appare un luogo comune, e l’unica risposta appare essere la creazione di contesti specializzati nel trattamento del detenuto tossicodipendente per separarlo dal contesto carcerario e giungere, contestualmente, alla sua riabilitazione psico-fisica.

Elemento fondante resta il lavoro di rete con i Servizi in cui pubblico e privato mantengano la rispettiva identità e propongano la propria cultura dell’intervento per esercitare una funzione di stimolo reciproco.

Obiettivo comune è l’affermare ed il rafforzare, in linea con l’evoluzione normativa recente, il ricorso alle misure alternative alla detenzione per le condanne inflitte a persone con problemi di droga e alcool per reati comuni ma connessi alla dipendenza da sostanze, favorendo in tal modo il processo di inclusione sociale voluto dalla legge.

Tutti i servizi instaurano un rapporto di grande collaborazione con l’Autorità Giudiziaria offrendo risorse per rispondere al sistema sanzionatorio che, negli ultimi trent’anni, si è modificato sensibilmente. Tra questi il progetto “La cura vale la pena” che rappresenta una risposta innovativa ma anche preventiva al pregiudizio che la carcerazione potrebbe arrecare al dipendente riabilitando.

La collaborazione con l’Autorità Giudiziaria parte dal concetto di “accoglienza” per rispondere al bisogno dell’individuo di modificare il proprio stile di vita evitando un percorso carcerario distruttivo caratterizzato dal meccanismo della “porta girevole”. Ma, nel contempo, risponde anche al bisogno della collettività di vivere in una società sana.

La misura degli arresti domiciliari, infatti, ha sempre rappresentato un momento custodiale forte che rischia di inficiare il percorso educativo attribuendo agli operatori della struttura un’onerosa funzione di controllo che mal si concilia con il tipo di intervento: tuttavia la collaborazione dell’Autorità Giudiziaria, che ha attribuito all’operatore un’ampia valutazione dei movimenti dell’utente, è risultata maggiormente adeguata alla funzione educativa, pur investendo gli operatori stessi di una forte responsabilità. La struttura ospitante, nella persona del suo responsabile, deve garantire una veloce comunicazione delle violazioni dell’ ospite che possono portare alla revoca della misura ed il ripristino della custodia in carcere, ancor più se tali violazioni costituiscono reati. La mancata comunicazione può comportare una segnalazione all’ente presso cui la comunità è accreditata che ha come conseguenza la revoca della convenzione.

Ed è per questo motivo che occorre uniformare questo tipo di collaborazione, magari sancendola con una norma, che favorisca l’applicazione della custodia cautelare a persone seriamente intenzionate ad intraprendere un percorso di recupero, tenuto presente il dato incontrovertibile per il quale una persona in una struttura residenziale rappresenta un costo sociale di gran lunga inferiore di quella ristretta in carcere, anche in virtù dell’aspetto recidivante di cui abbiamo già trattato.

Ma anche sul versante dell’esecuzione penale bisogna dire che l’intervento della Corte Costituzionale e la messa a punto di alcune modifiche legislative hanno ampliato il ricorso alle misure alternative offrendo la possibilità alla persona dipendente da sostanze di intraprendere percorsi di recupero volti a prevenire sia la ricaduta nell’uso che la commissione di nuovi illeciti.

E’ un dato incontrovertibile che la misura alternativa riduca il comportamento delittuoso recidivante, ma ancor più lo è qualora la misura sia caratterizzata da un intervento riabilitativo che agisca sulla persona e non solo sul contesto sociale in cui tende a reinserirsi.

Un investimento che induce a non abbassare mai la guardia nei confronti delle insidie che quotidianamente si incontrano con l’insorgere dei nuovi stili di consumo e a non stancarsi mai di auspicare nuovi interventi normativi volti a favorire il recupero della persona per tenerla fuori da contesti criminali che si strutturano intorno a tali stili. Questo è il modo per fugare ogni pregiudizio sulla presunta resa..

L’illecito penale è un momento che porta la persona a contatto con un sistema caratterizzato da regole precise che non possono essere sottovalutate né disconosciute.

La risalita avviene solo se questa consapevolezza si radica nell’individuo, al quale sono offerti strumenti e non escamotage per trasformare i propri errori in risorse per un nuovo stile di vita. Questo strumento certamente non può essere il carcere con il suo mondo di regole non scritte che favoriscono l’irrigidimento e la cultura dell’illegalità. Al contrario, si tratta di individuare strumenti in grado di sviluppare la consapevolezza dell’individuo nel cercare attraverso modalità legali la convivenza con gli altri.

Il carcere produce la cultura dell’omertà e sviluppa codici comportamentali che sono difficili da eliminare e che l’individuo si porta dentro per sempre incidendo in modo negativo sul contesto sociale in cui tenta di “sopravvivere”.

La “messa alla prova” invece sviluppa competenze e relazioni sociali e porta la persona sperimentarsi nella legalità.

Il momento sanzionatorio, attraverso strumenti alternativi, può quindi diventare un passaggio educativo importante perché si avvale di risorse sociali con forti competenze che incidono sul comportamento dell’individuo, non solo portandolo ad affrancarsi dalla dipendenza, ma anche ad allontanarsi da circuiti criminali in cui è stato coinvolto o in cui rischia di cadere.

La messa alla prova ha sicuramente una funzione preventiva perché diretta precipuamente a soggetti alle prime esperienze illegali, nello stesso tempo il ricorso a misure cautelari, sia pure custodiali ma meno esclusive, consentono una sperimentazione nel proprio recupero.

L’istituto di cui all’art. 168-bis del codice penale è un’innovazione fondamentale per il sistema giudiziario, ma costituisce anche una grande sfida per tutti gli attori che ne fanno parte perché sono chiamati a coinvolgere realtà parzialmente estranee al processo penale con cui non sono abituati ad interagire.

La “messa alla prova” deve essere letta come un momento di grande evoluzione del sistema sanzionatorio e non come un semplice escamotage per decongestionare il sistema carcerario, come più volte insinuato.

In due anni di applicazione, però, si riscontrano difficoltà a strutturare la rete di supporto coinvolgendo il sistema sociale e sanitario, difficoltà dovute anche alla lunghezza dei tempi per costruire un percorso adeguato al fatto reato che consenta al Giudice di sospendere il procedimento ed attendere di valutare l’efficacia del progetto per poter estinguere il reato stesso.

Infatti, siamo abituati a leggere la conclusione di un progetto sociale come forma alternativa ad una sanzione e non come possibilità di non addivenire ad una sentenza di condanna e di cancellare un fatto reato, probabilmente accaduto, senza lasciarne traccia.

E’ doveroso sentire l’esigenza di definire il ruolo del sistema socio-sanitario, in particolare quello delle tossicodipendenze, in una rete che individua nell’intervento non solo la cura ma anche un modo di evitare una condanna, con le strumentalizzazioni che ne potrebbero derivare, ma anche con l’incremento delle opportunità per il soggetto dipendente di modificare il proprio stile di vita.

Per questo motivo occorre affrontare l’argomento evidenziando alcuni contenuti che stanno alla base del nuovo istituto: si tratta di un modo per introdurre a pieno titolo la giustizia riparativa attraverso il mero risarcimento del danno alla parte offesa del reato, laddove le condizioni economiche del reo lo consentano, i lavori socialmente utili come ristorazione alla collettività lesa dal fatto reato e la mediazione penale che ristabilisca l’equilibrio venuto meno con la commissione dell’illecito.

Il sistema socio-sanitario è chiamato ad anticipare un intervento in rete con quello giudiziario fin dalla fase delle indagini, senza attendere la condanna, la determinazione della pena e l’esecuzione della stessa.

Protagonista, ancora, il sistema del privato sociale, da sempre al fianco del settore pubblico: per costoro, infatti, si tratta di allargare l’orizzonte riabilitativo ai lavori socialmente utili. In fondo è un’opportunità per i tossicodipendenti in trattamento di includersi socialmente attraverso i contatti con le realtà sociali presenti sul territorio.

Ma è anche vero che l’istituto della messa alla prova prevede che il progetto non debba interferire con esigenze di studio e lavoro, ma ancor più con un intervento riabilitativo: per cui è necessario valutare con attenzione quanto sia opportuno prescrivere il lavoro di pubblica utilità ad un soggetto che abbia da poco intrapreso un percorso residenziale in cui è elemento fondante la separazione dal contesto sociale in cui si è sviluppata la dipendenza.

Per questo motivo ritengo auspicabile una riforma dell’istituto che deroghi, nel caso di soggetto inserito in un percorso terapeutico residenziale, all’imprescindibilità del lavoro di pubblica utilità senza pregiudicare per lo stesso la possibilità di aderire ad un progetto di messa alla prova.

Un intervento normativo di tale natura potrebbe derivare proprio dalla modifica del DPR 309/90, che da anni necessita di una rivisitazione complessiva, e si porrebbe in linea con l’istituto dell’affidamento in prova di cui all’art. 94 del testo unico che, in fondo, fornisce al dipendente che intende riabilitarsi un percorso privilegiato di natura social preventiva

Ancora poco applicata, all’interno di questa opportunità è la “mediazione” con la parte offesa del reato. Anche i soggetti che si sottopongono ad un percorso di recupero necessitano di consapevolizzare i danni che hanno arrecato con il proprio comportamento, spesso sottovalutati dal lavoro che fanno su loro stessi.

Non dobbiamo avere paura di intervenire sulla frattura sociale generata, e la mediazione rappresenta un buon momento per restituire alla società una persona recuperata.

Una riflessione su questi temi ci porta ad attribuire un significato alla condanna trasformandola in un’opportunità per la riabilitazione del detenuto tossicodipendente

di avv. Marco Cafiero – consiglio direttivo FICT