Non deve spaventare la complicatezza della Giustizia Riparativa. I numerosi simposi e i pensieri che hanno determinato tecniche differenti mirano, in realtà, ad un unico scopo.
Non è tempo di conflitti metodologici, se mai di confronti, di affinamenti, di integrazioni. Ma l’obiettivo resta la relazione perduta.
Una relazione che, mi si consenta, si è persa da molto tempo. Una relazione evaporata – è un termine che mi piace molto perché dà l’idea di qualcosa che svanisce senza che ce ne accorgiamo e, ultimamente ci accorgiamo di ben poco per quanto concerne i rapporti umani – il cui destino non sempre è determinato da un conflitto.
Il conflitto, per contro, lascia un disagio profondo su cui l’essere umano si concentra a dismisura anche quando è di poco rilievo. La cagione è il forte individualismo da cui siamo affetti che ci porta ad esaltare in modo abnorme qualunque onta il nostro prossimo ci infligga, finanche un sorpasso in coda. Ci sentiamo lesi grandemente perché a risentirne è la nostra persona, costruita su presupposti tanto fragili da crollare al minimo sopruso vero o presunto.
La Giustizia riparativa non è destinata a questa conflittualità ma a quella, spesso di pari levatura, che induce alla querela. Sto partendo da un livello basso di controversia senza dimenticare che le questioni che approdano nelle aule di Giustizia sono quasi sempre di ben altro livello.
Bene, usciamo quindi dai contrasti metodologici per affermare principi che, invece, sono degni di attenzione. Quando cerco di spiegare la mediazione penale a persone poste al di fuori di un contesto tecnico, mi piace adoperare il termine “spostamento”. Mi rendo conto che non si tratta di un termine accettabile dal European Restorative Justice che rappresenta il mio faro culturale sul concetto di riparazione, ma si rivela un ottimo strumento di comunicazione e comprensione.
Ho appreso le tecniche mediatorie con un metodo che opera sul linguaggio delle parti in conflitto o controversia, per cui mi piace affermare che il mutamento dialogico sia rappresentabile fisicamente come uno spostamento della persona da un luogo all’altro. Per luogo intendo la posizione granitica del mantenimento del conflitto che, magicamente, scioglie il calcare sedimentato sul proprio dolore per consentire all’essere umano di spostarsi in una posizione che potrebbe essere davvero più comoda.
Il concetto di benessere cui anelo per me e per i miei compagni di viaggio, intendendo per tali tutti gli esseri umani è relazionale dei singoli, basato sulla loro capacità di comporre i conflitti e non rimanere imprigionati in una gabbia di livore e risentimenti. Come sempre emerge il mio ideale romantico che si conclude con la parola “lieto fine”.
Per spostamento, dunque, mi riferisco alla possibilità di muovere tutti coloro che a vario titolo agiscono nell’ambito della Giustizia verso un nuovo modo di risolvere i conflitti. Si tratta di un numero di persone davvero elevato che non si riduce ai tradizionali attori principali del processo penale, ma include una serie di realtà molto ampia tra cui la Comunità.
La comunità assume il ruolo di “Comunità riparativa” e coniuga il principio di accoglienza con quello di giustizia. Per una volta questi due termini apparentemente così lontani si fondono nell’amministrazione di un bene sociale di estremo valore che lungi da integrare l’usuale “buonismo assistenzialista” risponde alla necessità di rimettere le cose a posto, termine tanto caro ai cultori della Giustizia Riparativa.
Il movimento, indice di una società dinamica e costruttiva, intende principalmente modificare la visione del crimine da violazione nei confronti di una entità astratta a violazione di un bene dell’individuo offeso, parte certamente della collettività ma portatrice di un proprio interesse leso.
Non si tratta più, quindi, di un mero biasimo contro l’offensore, bensì della soluzione di un problema di responsabilizzazione dell’atto compiuto.
Il concetto di Giustizia senza spada introduce un elemento di grande pregio: la comunità come realtà che agevola il processo restaurativo. La Giustizia “in nome del popolo italiano” assume un valore diverso dalla tradizionale delega punitiva che la legge attribuisce al Giudice, è la Comunità che si responsabilizza per l’inclusione dei suoi componenti affinché non ne siano esclusi.
Sembra un paradosso, in realtà assistiamo ad un processo di responsabilizzazione collettivo. Sempre più ci spingono a prenderci cura dell’ambiente piuttosto che delle minoranze: a maggior ragione siamo chiamati a farci carico di un fantasioso processo di costruzione di relazioni interrotte. Se la salute dell’ambiente è un vantaggio per l’essere umano, ancor più il benessere del singolo avrà una ricaduta sulla società. È un modo di creare sicurezza senza inasprire i conflitti.
Lo spostamento che intendiamo creare porta alla responsabilizzazione dell’offensore nei confronti del danno cagionato alla persona offesa nell’ottica di una condivisione del disvalore creato dalle azioni delittuose. L’offesa non è più solo una situazione da vendicare ma un’azione che ha le sue connotazioni sociali, morali e politiche ed è sotto questo aspetto che assume un valore che richiede consapevolezza del danno cagionato.
Non si tratta più di un debito del singolo nei confronti dello Stato ma diventa un riconoscimento della reale parte offesa per cui la risposta non sarà più centrata sulla devianza del soggetto ma sulle conseguenze dannose del suo agito.
Impariamo a spostarci.

di avv. Marco Cafiero, specializzato in criminologia clinica e consulente F.I.C.T.