Da mesi si torna a parla di indulto ed amnistia.

Leggiamo che Papa Bergoglio ha chiesto “un atto di clemenza” in concomitanza con l’anno santo della Misericordia.

Intanto i provvedimenti di Giustizia riposano in attesa di una loro definizione.

Quello che sorprende è che la richiesta non si fonda sull’annoso problema del sovraffollamento carcerario che viene ritenuto in flessione. Si tratta di un dato che pur rispondendo, probabilmente, a criteri statistici può definirsi solamente relativo.

Le condizioni carcerari non paiono affatto migliorate nonostante i timidi tentativi del Governo di dare risposte soddisfacenti.

Quello che non soddisfa, però, è la reale sistemazione della macchina giudiziaria che stenta a decollare per offrire ai cittadini una risposta sanzionatoria adeguata e per nulla rispondente al dettato costituzionale che vorrebbe la pena con funzioni educative.

La magistratura di Sorveglianza confuta il dato ottimistico secondo il quale risulterebbe più bassa la recidiva di comportamenti delittuosi da parte di coloro che usufruiscono di misure alternative rispetto a coloro i quali eseguono la pena in istituto.

L’obiezione riposa nell’assunto che questo dato è frutto di un attento vaglio da parte della Magistratura nel concedere le misure alternative.

Non si tratterebbe, dunque, di un vero effetto risocializzante della misura alternativa, bensì di un’attenta prognosi da parte dei Magistrati di Sorveglianza corroborata dalla presenza nei collegi di esperti non togati in grado di rassicurare circa il probabile positivo esito del beneficio.

Mi sembra un’affermazione un po’ temeraria per la quale il Giudice si arroga una capacità di prevedere il futuro sulla base di dati ed elementi non sempre completi, quasi ad effettuare una scommessa “sicura”.

Ma se la scommessa è “sicura” non è più una scommessa, non è più un investimento sulla capacità dell’uomo di affrancarsi, attraverso un adeguato sostegno, dal circuito criminale con un inserimento sociale.

Basti pensare che già la possibilità di svolgere un’attività lavorativa può costituire una riduzione delle occasioni per delinquere.

Non dobbiamo basarci sulla certezza del recupero, bensì sulla possibilità che questo avvenga creando le condizioni sociali opportune. Altrimenti che scommessa è.

Ma il legislatore del 1975, prima, del 1986 poi ha inteso proprio creare possibilità investendo sulle risorse dell’essere umano di non ripetere agiti criminali a fronte di opportunità che il contesto sociale ha la potenzialità di creare.

Il carcere è una rinuncia al cambiamento, è una rinuncia ad investire, è solo l’accrescimento di un costo sociale che tenderà inevitabilmente a replicarsi.

Il Papa ritiene che sia un’ipocrisia vedere nei condannati solo persone che hanno sbagliato senza pensare alla possibilità di cambiare vita. Una mancanza di fiducia nell’essere umano e nella possibilità che lo stesso si riabiliti.

Da un punto di vista più laico mi sento di condividere il pensiero; per cui a prescindere da “un atto di clemenza” tout court, lo Stato deve affrancarsi da questo sentimento di sfiducia che, purtroppo, dilaga e ritenere che l’offerta di sicurezza pubblica passa attraverso un lavoro sull’essere umano piuttosto che sulla sua esclusione.

Questa riflessione non merita di essere accantonata e deve permeare tutta la Giustizia penale  a cui non si chiede certo di abiurare alla propria funzione sanzionatoria in omaggio alla certezza del diritto e della pena, solo di investire maggiormente sull’uomo.

avv. Marco Cafiero – Consigliere FICT