Il mio intervento vuol tentare, in chiave prevalentemente psico-pedagogica, una ricognizione dietro le linee del binomio “adolescenti-dipendenze”, mentre oggi si continua a puntualizzare il binomio dipendenze-disagio.

Di questo binomio, oggi è forse più facile conoscere e descrivere le “dipendenze” che non “l’adolescente”. Soprattutto l’adolescente (1) contemporaneo.

di prof. Nicolò Pisanu*

Proprio perché una definizione dell’adolescenza e dell’adolescente fuori da un contesto culturale specifico rimane sospesa, come una melodia mai trascritta sul pentagramma, la trama del discorso consta nel capire chi è e da dove proviene l’adolescente perso in percorsi di disagio che possono adire condotte tossicomaniche.

Come ben sappiamo alla pubertà si arriva a seguito di passaggi evolutivi: per diventare un individuo, l’uomo deve prima transitare attraverso un’altra persona. Un transito da non ridurre al solo meccanismo del parto, ma da estendere per un tempo molto più lungo e che comprende diverse accezioni, passando dall’allevamento all’accudimento (2). Recenti studi, aggiungono, che nell’interazione con la madre o il caregiver, la visione del volto di uno di questi “da un punto di vista neurobiologico innesca nel cervello del bambino il rilascio di endorfine, sostanze che agiscono direttamente sulle regioni cerebrali sotto-corticali del cosiddetto ‹circuito della ricompensa›, che utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina” (3). In tal senso, lo spessore di prossimità che il bambino avverte nel rapporto con la madre (4), funge da “imprinting”, cioè da apprendimento al vivere tramite la prima esperienza del vivere.

Le prime relazioni (familiari) sono, infatti, prototipiche delle relazioni future, come illustrato dalla teoria dell’attaccamento e dal concetto di “sentimento sociale” (5), quale istanza innata nell’uomo che determina un bisogno di cooperazione e di compartecipazione emotiva con i suoi simili.

Se un antico detto afferma che il nascere ed il morire sono momenti di estrema solitudine per l’uomo, possiamo aggiungere come corollario che il vivere è invece un momento di comunione, al di là degli esiti della stessa, in quanto quella chimica che ha originato lo sviluppo del feto, ora per entrare nella costruzione della mente deve confrontarsi con le alchimie del mondo e dell’alterità laddove il soggetto se ne mostra già predisposto.

“Prendendo come punto di riferimento la dimensione intersoggettiva, la nostra vita mentale viene teorizzata come la risultante di un dialogo continuo con le menti degli altri, una sorta di co-creazione di contenuti mentali nuovi, che è stata definita ‹matrice intersoggetiva› (…) che diventa il terreno nel quale le menti  dei due individui si modellano plasticamente in maniera reciproca (…) per cui i bambini nascono con un apparato psichico predisposto a sintonizzarsi con la mente ed il comportamento degli altri esseri umani” (6).

La neurobiologia pare dirci che l’alterità costituisce una costante per la crescita dell’uomo e la mente evolve contestualmente all’apprendimento sociale, sulla base di una struttura nervosa ereditata che, con la sua chimica, sostiene le attività cerebrali, quelle cognitive, il comportamento e le emozioni.

Non solo: i meccanismi cognitivi trovano nei neuroni specchio (7) una classe di neuroni che si attivano selettivamente nei confronti di un’azione compiuta o osservata, offrendoci nuove chiavi di comprensione delle azioni e dell’apprendimento per esperienza e per imitazione. Sono localizzati in diverse aree cerebrali e “nell’uomo si attivano nell’osservatore non solo quando le azioni vengono effettivamente compiute dall’osservato, ma anche quando vengono mimate, e sembrano essere sensibili anche all’intenzione dell’atto che viene compiuto e non solo all’atto motorio o alla sequenza di atti motori in quanto tali” (8).

Senza, quindi, scadere in un affrettato determinismo è lecito adottare quale chiave interpretativa dell’adolescente il soggetto stesso, con la sua storia e, soprattutto, con la qualità di relazioni instaurate dalla nascita in poi (se non già prima) con la o le persone che lo educano.

Questo ragazzo, oggi, può essere paragonato ad un orfano, in quanto esito socio-culturale ed educativo della precedente società “senza padri né maestri” (9), che chiuse il XX secolo, poiché egli approda in un limbo sociale a-progettuale e anonimo dove la “liquefazione” (10) del tempo e dei rapporti nonché le paure del presente e le ipoteche sul futuro, tendono a modificare il profilo dell’adolescenza stessa e il suo compiersi nell’adultità.

Oggi, si denota un grado d’impalpabilità fra le generazioni, che coinvolge i modelli che regolano la vita sociale e politica, laddove vengono esaltate le differenze, le interpretazioni dell’individualità, la conflittualità. Decade, infatti, il concetto di territorio e subentra quello di “comunità virtuale”, mentre scuola e famiglia perdono di centralità educativa e le ideologie politiche “evaporano”.

La trasmissione di contenuti culturali ed etici, che prima avveniva verticalmente da  generazione a generazione, nel nostro tempo, appare svilupparsi orizzontalmente fra “pari”, secondo linee autonome e con strumenti nuovi.

“Agenti di socializzazione mediatica, come la televisione, la pubblicità e Internet, (che) propongono modelli di comportamento sociale ed emotivo a cui i giovani fanno riferimento” (11) e declinano nuovi stili di vita, in diversi ambiti “aggregativi” (…) gli adolescenti sono esposti a molti rapporti interpersonali, però superficiali, e gli interessi sono orientati verso il mondo esterno.

A differenza dei suoi coetanei delle generazioni passate, il ragazzo oggi dispone di una mole impressionante e mutevole d’informazioni ma a tale “vantaggio” non corrisponde né una piena capacità di metabolizzazione delle stesse da parte del soggetto né un sistema di autenticazione da parte dell’adulto, in grado di garantirne la qualità: ne deriva un ulteriore elemento di disagio che la società trasmette ai già “incasinati” adolescenti.

Il ragazzo contemporaneo entra in un territorio sconosciuto e destrutturato dove la norma e la regola morale vengono relativizzate, quasi a scomparire, lasciando “orfano” quel ragazzo che, per divenire adulto, dovrebbe, appunto, confrontarsi e belligerare con l’adultità e il bagaglio normativo ad essa conseguente.

L’adolescente del secolo scorso lottava contro l’autoritarismo, mentre quello di oggi si trova a contrastare l’anomia, secondo l’accezione di E. Durkheim, che descrive la mancanza di norme sociali e di regolazione morale, che creano dissonanza cognitiva fra la realtà e le aspettative “morali” dell’individuo (12).

La presenza di un contesto anomico può portare il ragazzo a mimare, anziché identificarvisi, l’adulto, secondo schemi replicanti, non supportati né dalla piena consapevolezza né da responsabilizzazione adeguata.

Per comprendere tale situazione, bisognerebbe interrogarsi preliminarmente su quale sia lo “status” dell’adulto oggi, se non stia anch’esso perdendo d’identità a tal punto da non saper più contenere e delimitare l’adolescenza, in quanto la stessa psicobiologicamente si presenta con i tratti ineludibili della pubertà mentre l’individuazione dell’adultità non può contare su passaggi biologici bensì corre, principalmente, su binari psicologici e sociali.

Non possiamo non accorgerci dell’arresto di un processo socio-culturale di maturazione, per cui, in assenza dell’adulto, cioè di colui che sancisce il passaggio dell’adolescenza, ci troviamo di fronte ad un gap generazionale ben diverso da quello con il quale si definivano, nelle precedenti generazioni, le divergenze fra il mondo dei genitori e il mondo dei ragazzi.

Una possibile interpretazione, in termini psicoanalitici, di questa émpasse si potrebbe individuare in un diverso accadere, soprattutto nei suoi esiti, del complesso edipico che, di per sé, permette la contrapposizione simbolica tra figlio e genitore, pubere e adulto, dando di conseguenza accesso alla formazione dell’identità e dell’autonomia personale.

Metabolizzare e superare il complesso edipico presuppone l’adeguatezza, almeno, della coppia genitoriale, nonché un’adeguatezza della stessa tale da permettere un confronto tra i ruoli. “Deve cioè esistere: un rapporto privilegiato tra i genitori; un’asimmetria tra le generazioni e cioè che sia chiaro sul piano psichico chi sono i genitori e chi sono i figli.

Inoltre occorre che le frontiere tra i vari sottosistemi e tra gli individui siano ben definite senza tuttavia essere rigide” (13).

Secondo Mâle, “L’evoluzione dei costumi si insinua nella vita stessa del gruppo familiare, pervade i comportamenti, svia le relazioni oggettuali.

La famiglia appare così, nella sua organizzazione mutevole ed oscillante, per le tradizioni o le credenze che mantiene o da cui si separa, il riflesso dello stato sociale attuale. (…) Vediamo inoltre (nei nostri trattamenti) le difficoltà che incontrano le generazioni allevate senza padre. (…) La vita cellulare in spazi insufficienti per molti adolescenti che, non trovando sbocchi al loro bisogno di affermazione, di differenziazione, si gettano nella delinquenza (la banda) e sprofondano in nevrosi silenziose. (…)

Il mondo edipico, colto da Freud a Vienna verso il 1900 intorno al patriarcato, persiste. Ma la dominazione matriarcale riporta in primo piano il mondo nutrizionale dell’inizio della vita.(…) Anche l’uomo è più spezzettato nei suoi impegni, più distante dalla famiglia” (14).

Nella misura in cui il confronto con ambo le figure genitoriali e con le identità adulte, maschile e femminile, da esse rappresentate, si rivela labile, per l’impalpabilità delle stesse, si formano nell’individuo in crescita delle lacune, compensate da un massiccio investimento narcisistico del soggetto.

Senza, poi, il passaggio dalla libido narcisistica a quella oggettuale, l’adolescente attorcigliato su sé stesso elabora una concezione utilitaristica della vita finalizzata alla sopravvivenza, “con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali” (15).

“Anche i giovani di oggi devono fare il loro Edipo, devono cioè esplorare la loro potenza, sperimentare i limiti della società, affrontare tutte le situazioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza, tra cui uccidere simbolicamente l’autorità, il padre. E siccome questo processo non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti contrattuali tra padri e figli, l’autorità non esiste più, i giovani finiscono col fare il loro Edipo con la polizia, scatenando nel quartiere, allo stadio, nella città, nella società la violenza contenuta in famiglia” (16), cioè “faticano a vivere secondo il principio di realtà. Faticano a collocarsi entro aree-limite. Conseguentemente, restano in balìa del principio del piacere, per cui sono intolleranti e distruttivi nei confronti di qualsiasi ostacolo (persone o situazioni) che frena o che impedisce il soddisfacimento delle loro pulsioni” (17).

Se il mondo degli adulti difende tesi minimaliste e i propri personali interessi; devitalizza la norma, proibendo negli assunti ma concedendo nei fatti; disimpegna gli educatori dai loro compiti precipui per ridurli a “longa manus” delle aspettative dei genitori, fino a giungere a relativizzare la devianza o, al contrario, a proiettare cause e conseguenze del disagio sul’adolescente o sulla società deve, altresì, considerare che ciò facendo rinforzerà la trasgressione o cronicizzerà il disagio, soprattutto in coloro che, per età e opportunità, provocano con tali azioni l’adulto stesso a rendere ragione di una realtà che pare essere virtuale.

La metafora televisiva dei Simpson (18), illustra con ironia e crudo esame di realtà il mondo della classe media occidentale.

Bart (il figlio) “scavezzacollo impenitente” è “un modello incorreggibile che si ficca coram populo le dita nel naso, passa ore incollato alla tivù e mente spudoratamente di fronte all’evidenza dei fatti (…); leader della bricconaggine” a scuola; educarlo “più che impossibile è inutile”.

“Homer suo degno genitore, velleitario ma incapace di un vero sogno, impaurito dal presente ma indisponibile a cambiare per costruire un futuro diverso”, che può rappresentare l’uomo della standardizzazione contemporanea “nell’ingenua fiducia nel consumismo, nel suo tentativo reiterato di sgattaiolare lontano dai doveri lavorativi, nella ricerca continua di un quarto d’ora di celebrità, nella bulimia di fronte al frigorifero o alla scatola della tele”

“Marge (la madre) casalinga perbenista”: gli altri figli: “Lisa saputella ecologista”, studentessa modello, e “l’ancor bebè Maggie”.

La morale lapalissiana l’ha fornita lo stesso Autore: ”se volete che i vostri figli la smettano di comportarsi come Bart, smettetela di comportarvi come Homer !” (19).

La situazione appare più critica quando la mal-educazione adulta trova in alcune espressioni della società una cassa di risonanza.

Blandino (20), citando Meltzer, afferma che questi descrive l’adolescenza come “processo di elaborazione della confusione” (21), data, appunto, la confusione e l’insicurezza di questo stadio evolutivo, e segnala come pericolosa l’idealizzazione della confusione, qualora venga apprezzata e avvalorata dal ragazzo e/o, peggio, dall’adulto.

“Quando tale idealizzazione della confusione è ratificata esplicitamente o implicitamente dagli adulti: genitori, insegnanti, opinion makers, leader vari o figure di riferimento o, infine mass-media, ne conseguono effetti a dir poco disastrosi dove, nelle migliori delle ipotesi, c’è una collusione, da parte degli adulti, con l’adolescente, a dimostrazione di come gran parte del mondo adulto sia ancora adolescenziale. Molti problemi sociali odierni nascono proprio da questa confusività che, in questa luce appare espressione di una società adolescenziale o di modalità adolescenziali di gestire il potere o di vivere nel sociale.

Essa (…) Costituisce una delle principali cause del malessere sociale e giovanile in particolare. Malessere, si badi bene, spesso esperito e vissuto dagli adolescenti senza consapevolezza e coscienza, ma solo come una forma di disagio esistenziale, estrinsecato magari attraverso disagi fisico-somatici (anoressia, bulimia), comportamenti tossicomanici, antisociali o autodistruttivi” (22).

Gatti (23) afferma che oggi viviamo in una cultura dell’additività, sempre più diffusa, tollerata e implicitamente condivisa. Contraddistinta da un consumo consapevole, diffuso e generalizzato di sostanze di varia natura (legali o no) finalizzato al sostenimento dei modelli individuali e sociali e all’adozione di comportamenti additivi, quali riposte ai bisogni funzionalmente indotti dal consumismo.

Di conseguenza, il fenomeno droga è strettamente legato all’evoluzione sociale: ne condivide i tempi e gli spazi ormai fuori dalle sottoculture. In tal senso si rivolge, almeno potenzialmente, alla maggior parte dei cittadini, che assistono, senza comprendere appieno, ad una progressiva normalizzazione sociale del fenomeno “droga”.

Ne deriva che il disagio, quale malessere individuale di varia natura, si accentua con fattori esterni generati artatamente da questa cultura e traslati acriticamente oppure irresponsabilmente dall’adulto nel mondo dei fanciulli e degli adolescenti: si pensi all’abuso negli ambienti giovanili.

Come il consumo legale di un elevato numero di prodotti, non necessari se non alla lunga anche nocivi, fa da volano al consumo illegale di sostanze psicotrope, creando e legittimando il bisogno, così il comportamento additivo dell’adulto diventa chiave di lettura per l’adolescente ai fini del suo situarsi nel mondo dei “grandi”.

Mutuando da studi condotti su animali, “la separazione dalla madre in fasi precoci dello sviluppo, produrrebbe delle reazioni molecolari in grado di modulare la produzione di recettori in alcune aree cerebrali (tra cui l’ippocampo), rappresentando quindi il substrato biologico dell’alterata risposta allo stress” (24).

Così, nella compagine sociale, l’assenza di figure genitoriali o adulte autorevoli, capaci di relazioni significanti e gratificanti a livello emotivo-affettivo, può indurre la ricerca di una risposta fuori dalla relazione interpersonale, stimolando neurologicamente il “circuito della ricompensa” mediante le sostanze, quali protesi sostituive delle persone e dei sentimenti (25).

Si tratta di una reazione possibile e in linea con l’età, che sottolinea “che troppo spesso agli adolescenti non vengano offerti esempi di funzionamento mentale adeguato, ma vengano presentati esempi di funzionamento superficiale o difensivo, evacuatorio di tutto ciò che può creare pensiero” (26). Eludendo un saggio monito di Erikscon:

“Ma, ditemi, quando comincerà il secolo dell’adulto? Qui, mi sembra, alcune domande rimangono senza risposta. E tuttavia la nostra conoscenza dei bambini oltre che dei giovani rimarrà alquanto frammentaria (per essi come per noi) se non sappiamo cosa vogliamo che essi diventino, o persino che cosa vogliamo essere – oppure, essere stati – noi stessi” (27).

In definitiva, i percorsi che accomunano adulti e adolescenti sfociando, poi con ruoli e responsabilità differenti, nel disagio risultano capillarmente presenti nel tessuto socio-culturale odierno, nonostante la messa in opera, da parte della società adulta, di meccanismi difensivi a carattere proiettivo che stigmatizzano il disagio (e i suoi esiti) come sintomo a sé stante del soggetto portatore, secondo un gioco di rimbalzi dove nessuno si percepisce, in ultima istanza, responsabile.

Note:
[1] Per approfondimenti: G. Bressa, M. Del Monte, S. Improta, N. Pisanu, Reduci dall’adolescenza. Prospettive psicobiologiche, cliniche e socio-educative”, F. Angeli, Milano, 2012.
[2] N. Pisanu, Psicobiologia dell’educazione. Chimica della mente e alchimie relazionali, Ed. IPU, Vitorchiano, 2010.
[3] Mundo Emanuela, Neuroscienze per la psicologia clinica: le basi del dialogo mente-cervello., R. Cortina. Milano, 2009. pag. 69.
[4] Va detto comunque che non necessariamente si debba trattare della madre biologica ( in termine tecnico si parla di un “caregiver”).
[5] Concetto coniato da Alfred Adler,
[6] Mundo Emanuela, op. cit., pag. 111 e 113.
[7]Rizzolati Giacomo, Sinigaglia Corrado, “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”, R. Cortina Ed., 2006; Iacoboni Marco, “I neuroni specchio”, Bollati Boringhieri, 2008.
[8] Mundo Emanuela, op. cit., pag. 125.
[9] Ricolfi L. – Sciolla L., Senza padri né maestri, De Donato, Bari, 1980.
[10] Baumann Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002.
[11] Croce M. – Gnemmi A. (a cura di), Peer education – Adolescenti protagonisti nella prevenzione, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 114.
[12] Durkheim E., Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano, 1987.
[13] Castellazzi V. L., Il test del disegno della famiglia, LAS, Roma, 1996.
[14] Mâle P., Psicoterapia dell’adolescente, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1982, pp. 16-17.
[15] Galimberti U., L’ospite inquietante- Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 28.
[16] Galimberti U., op. cit., p. 29.
[17] V. L. Castellazzi, La violenza in età adolescenziale e giovanile. Condotte auto ed eterodistruttive come difese patologiche del Sé”, in Orientamenti Pedagogici, Vol. 57, Novembre-Dicembre 2010, pp. 1069-1084.
[18] Cartoons di Matt Groening.
[19] Le citazioni sono tratte da: B. Salvarani, Strani maestri. Anarchie educative dai Peanuts ai Simpson, Ed. IPU, Vitorchiano, 2009.
[20] Blandino G., Adulti adolescenti. Confusioni e ambiguità nel mondo degli adulti come cause del malessere giovanile, in Orientamenti Pedagogici, Vol. 57, n. 5, settembre-ottobre 2010, pag. 806.
[21] Meltzer D., Teoria psicoanalitica dell’adolescenza, in Quaderni di psicoterapia infantile, Vol. 1, pag. 22.
[22] Blandino G., pp. 806-7.
[23] Gatti R. C., Droga. Architettura e materiali per le nuove reti di intervento, F. Angeli, Milano,2004.
[24] Mundo Emanuela, op. cit., pag. 73.
[25]Cfr.: N. Pisanu, La parola che cura, in G. Magro, Tossicodipendenza malattia d’amore, F. Angeli, Milano, 2004.
[26] Blandino G., pp. 816.
[27] Erikson E. H., Aspetti di una nuova identità, Armando, Roma, 1975, p. 129.
* Psicopedagogista, Psicologo, Psicoterapeuta; Preside Istituto Superiore Universitario di Scienze Psicopedagogiche e Sociali “Progetto Uomo”, Affiliato Università Pontificia Salesiana.