Domande. Senza risposta. Sono tante le Amy Winehouse. Ragazzi che non sono famosi né cantano, che non hanno onori ed oneri della notorietà eppure vivono uguali inferni interiori. hanno, dentro, lo stesso vuoto che tentano di colmare con stupefacenti illusioni da sniffare o fumare o ingoiare. Perciò qualcosa stride in alcune parole di «commozione» e «dolore» per la morte annunciata di quella ragazza dalla voce graffiante. E stride nella solita frase: «È scivolata fino al fondo dell’abisso».

Vero, certo. Ma quella frase la pronuncia, turbato, anche chi combatte una battaglia quasi quotidiana per depenalizzare o legalizzare o liberalizzare le droghe, dunque per dare gran mano alle mille altre Amy ad annientarsi meglio e in fretta, anzi una bella spinta proprio nell’«abisso». Allora delle due l’una: certi turbati e commossi “antiproibizionisti” nemmeno sanno per cosa (e chi) battagliano, oppure la loro ipocrisia è inquietante assai più delle loro idee. In entrambi i casi, sarebbe stato meglio, molto meglio, se avessero scelto di tenere la bocca chiusa.
La tragedia di quella giovane e magnifica cantante non era la droga e neanche l’alcol o l’anoressia. Era lei stessa. Il suo cuore. La sua anima talmente aggrovigliata d’averla, alla fine, soffocata e uccisa. E nessuno probabilmente ha provato (davvero) a liberargliela o, almeno, nessuno c’è riuscito. Di sicuro, non avrebbero potuto droga e alcol, che sono tra i migliori strumenti per trasformare il vuoto che si ha dentro in un buco nero nel quale scomparire per sempre. Amy non poteva non saperlo. Però quella che sarebbe diventata la sua ultima notte l’aveva cominciata – ci hanno raccontato – proprio con la voglia decisa e sfrenata di sballarsi alla grande. L’aveva già fatto tante e tante altre volte, e tutti sapevano anche questo. Eppure, lo stesso, le era facilissimo trovare droghe e impossibile qualcuno che invece le accendesse una luce.
La domanda resta così senza risposta: cosa avrebbe preferito Amy? La droga o una luce? Non lo si saprà più. A meno che venga voglia di girare la domanda a qualsiasi ragazzo che le droghe le viva (o le abbia vissute) sulla sua pelle: cioè a qualsiasi altra Amy Winehouse, famosa o meno che sia. Per questo le pubbliche “commozioni” di certi antiproibizionisti somigliano più a un’offesa che al turbamento: la droga del resto (stando a loro e solo loro), come pure la morte, non è un «diritto»? Non è «assoluta, intangibile libertà personale»? Secondo i parametri di certi signori, Amy ha «scelto» liberamente e autonomamente. Si è giustamente autodeterminata. Dunque un «peggio per lei» o quanto meno un «peccato, le è andata male» su quelle bocche sarebbe suonato meno ipocrita e meno falso.
A proposito: nelle cronache di questi giorni il nome di Amy Winehouse viene spessissimo legato anche ai concetti di «leggenda» e «per sempre»: sarà vero – illustri precedenti lo testimoniano – però anche quest’accostamento non riesce a non apparire sgradevole. Come a voler certificare che il passaporto per una sorta d’eternità terrena passi dallo sballo (possibilmente definitivo) o – peggio – che quanta più sregolatezza si possieda (possibilmente suicida) tanto più si è prossimi al genio.
Annotazione finale: si è lasciato che Amy incenerisse la sua vita appena ventisettenne, però il suo secondo disco (Back to Black) poche ore era schizzato in cima alla classifica degli album scaricati dal web, mentre nel Regno Unito se ne erano già moltiplicate trentasette volte le vendite…

Pino Ciociola