Sono stato parte della Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche (FICT) quasi dagli albori.

Nata nel 1981 mi coinvolse già nel 1985: allora giovane e inesperto studente di giurisprudenza, per approfondire i sistemi  comunitari sperimentali che si stavano realizzando negli Stati Uniti.

Fu un amore improvviso che ha caratterizzato questi quarant’anni della mia vita e mi ha visto protagonista a fasi alterne di uno sviluppo che ha tenuto conto del disagio della persona dipendente che riesce a chiederei aiuto dopo un passaggio carcerario decisamente traumatizzante.
In questi giorni si consumano pagine e parole per ribadire quanto il nostro sistema penitenziario sia obsoleto, inefficace e foriero di una criminalizzazione del soggetto che si addentra nei corridoi senza fine di un istituto di reclusione.
In questi quarant’anni, su queste pagine, mi sono dilungato su tematiche e affermazioni che ancor oggi affliggono il mondo del terzo settore, un po’ meno l’opinione pubblica.
Per questo mi piace pensare che anche un’esperienza delittuosa possa trasformarsi in risorsa non solo per le persone di buona volontà che affollano l’associazionismo, ma perché un Ministro della Giustizia ha pensato di trasformare in norma il concetto di riparazione.
Anche su questo tema ho scritto molto ma mai abbastanza attesa la resistenza che l’istituto della Giustizia Riparativa incontra nella nostra comunità sociale e finanche nelle aule di Giustizia dove, invece, dovrebbe essere incoraggiata.
Oggi, leggendo la nuova Carta dei Valori della FICT, ritrovo una serie di presupposti che confermano quanto la Federazione sia da sempre pioniera nell’evidenziare la necessità di coniugare da decenni elementi sottesi alla Restorative Justice.
Primo fra tutti quello di rappresentare una Comunità all’interno della Comunità sociale. Non essere un luogo isolato ma solo uno spazio in cui avere modo di riflettere su come vivere nella società.
Nei miei incontri con  i ragazzi ospiti delle strutture  – un momento in cui ritrovo settimanalmente la motivazione ad agire in un contesto che rischia ogni giorno di perdere i valori nella selva oscura della burocrazia e della performance – mi piace rappresentare loro come il modello comunitario sia una palestra di vita, un momento magico, sia pure faticoso, per orientarsi in quell’immenso territorio costituito dalla vita. Un modello che offre protezione e che censura l’inadeguatezza di ciascuno per trasformarla in risorsa. Sembra un concetto difficile da digerire, eppure i ragazzi, sia pure attratti dall’illiceità, comprendono come certi provvedimenti siano assolutamente educativi.
La FICT da sempre offre modelli educativi e la Carta dei Valori cui si ispira, testé aggiornata e licenziata, utilizza un linguaggio assolutamente aderente al modello riparativo che la Giustizia vorrebbe affermare.
Il riportare al centro la persona intesa come essere relazionale fa comprendere come, in tempi non sospetti, Progetto Uomo anticipasse il fallimento del modello riabilitativo tout court del sistema sanzionatorio ed affermasse quello riparativo che porta al centro dell’intervento giudiziario la relazione tra gli individui come metodo di risoluzione dei conflitti e prevenzione della recidiva delittuosa.
Quanto ho approfondito negli ultimi vent’anni sul modello riparativo mi induce a condividere l’assunto secondo il quale la diversità rappresentata dall’altro, diventa responsabilità per l’altro . Si tratta di uno degli assioni meglio definiti che la Giustizia Riparativa intende affermare perché chiama ciascuno di noi alla responsabilità nei confronti dell’altro. Sembra una visione mistica, in realtà è profondamente laica perché impone a ciascuno di guardarsi dentro per trovare la relazione di aiuto di cui dovremmo essere depositari anche nell’ottica di un benessere personale. Essa esige che ci si lasci chiamare e provocare non solo dal mondo, ma dai mondi in divenire che egli abita.
Si parla di ricerca di identità e di senso ed è facilmente riconoscibile quanto la Giustizia Riparativa intenda nell’incontro tra le parti. Rendere tutti i soggetti attivi, con la loro storia, i loro bisogni, i loro vissuti, i loro saperi e le loro speranze è parte del dialogo che si instaura nell’incontro di mediazione come momento di riconoscimento dell’altro. Non si può prescindere dal senso se si ambisce alla costruzione della relazione.
Responsabilizzare le persone nel percorso di cambiamento o di miglioramento della qualità della vita non è forse un obiettivo ribadito all’infinito dalla GR?
Accogliere senza precondizioni, precomprensioni o preclusioni, attenti a favorire eventuali aperture al cambiamento o all’assunzione di maggiori responsabilità: mi sembra di ricordare che sia la forma richiesta per l’incontro che la GR sostiene essere foriero della modifica dei repertori discorsivi che caratterizzano il conflitto.
Accrescere le capacità di costruire rapporti positivi e propositivi con il proprio contesto familiare e sociale rappresenta l’obiettivo primario di un percorso di GR,  specie quando il reato viene consumato – frequentemente – all’interno del contesto familiare. Sviluppare competenze culturali e sociali è ciò che mi propongo quando incontro il gruppo di ragazzi in cammino, senza sconfinare nel disagio personale che ha portato al pregresso stile di vita. L’aspetto culturale, inteso come conoscenza delle opportunità che la vita offre è sicuramente uno stimolo a sperimentare altre vie, decisamente meno distruttive.
Nella carta dei valori ritrovo sostantivi degni di essere assunti a elementi di rilevo nella declinazione del modello riparativo. Solidarietà, dignità umana, legalità. A volte sfugge come il lavoro di comunità sia il reale ambiente educativo che favorisce l’apprendimento sociale in una dimensione di gruppo, che  la Federazione  afferma da oltre quarant’anni attraverso un modello multidisciplinare in cui si integrano le diverse professionalità che fanno parte del progetto.
Ma la Comunità sociale si dimentica forse di poter rappresentare quel l’ambiente? Ci manca forse la multidisciplinarietà che la FICT ritiene essenziale per un lavoro di cambiamento?
Ed ancora promuovere esperienze innovative mantenendo le caratteristiche della flessibilità delle risposte e dell’adattamento al bisogno non è forse quanto il Governo sta provando a fare – rischiando finanche l’impopolarità – allorché si addentra nei meandri della risposta sanzionatoria come risorsa inframuraria. Il lavoro come momento prodromico all’inclusione sociale e all’acquisizione di competenze non rappresenta forse una risposta al bisogno? Non sarà la panacea perché comunque la riposta detentiva è densa di controindicazioni che il mero lavoro non può vanificare.
Lo so che il discorso si rivela complesso e riconosco la mia tendenza a semplificare e a rendere romantico un sistema di relazioni cui anelo e che ogni giorno che passa mi sembra più irraggiungibile. Ma ragionando voglio prendere le distanze dalla mia disillusione cronica per individuare le crepe che il muro dell’egocentrismo, della difesa dello spazio individuale e dell’indifferenza cosmica stanno creando e che tutti noi stiamo accettando con passività.
Non sono le parole, i proclami, le ideologizzazioni a superare le problematiche. Non possiamo fermarci ai proclami e alla delegittimazione di chi, correttamente, può pensarla in modo differente, dobbiamo semplicemente aprirci al dialogo, alla differenza senza per questo innalzarla e stigmatizzarla. Il riconoscimento della diversità ed il cambiamento dei repertori discorsivi – come afferma la scienza dialogica utilizzata negli spazi di mediazione – consente una pacificazione sociale che parte dai livelli più alti della politica nazionale (non ho le competenze per sconfinare)  alla più semplice diatriba condominiale (così tremendamente frequente e pretestuosa) per affermare che la capacità di convivere ed accettarci per quello che siamo è l’elemento fondante di una società che vuole essere educante e tollerante.
Non servono sfiliate, carrozzoni colorati, gridi di rivendicazione che non muovono le coscienze individuali, ci vogliono momenti in cui ciascuno di noi trova i colori dentro sé e si riconosce in quei semplici valori che la Federazione afferma da così tanto tempo, che dovrebbero essere stati digeriti ma che incontrano la resistenza di ciascuno di noi.
Forse è vero che prima di voler riparare gli altri abbiamo bisogno di riparare le nostre fragilità, i nostri pregiudizi e i nostri preconcetti e mettere al centro la persona…ma non solo la nostra!

N.B. Le frasi in corsivo e grassetto sono tratte dalla Carta dei Valori 2024

di avv. Marco Cafiero, Consulente F.I.C.T.