Non sono un tecnico, non sono un medico, ma una persona che da oltre venti anni vive la propria storia accanto a persone vulnerabili, fragili.

Verrebbe quasi istintivo, parlando di persone fragili, pensare a quanti bussano alle nostre porte per chiedere aiuto, alle fragilità grandi, estreme, riconoscibili a distanza … ma non è a loro che mi riferisco, non solo a loro. Parlo della mia fragilità, prima di tutto, di quella di ogni persona che vive, lavora o semplicemente condivide un tratto di strada nelle nostre comunità. Parlo di operatori, volontari, impiegati, collaboratori, presidenti.

Fragili come i ragazzi che chiedono una mano per uscire dalle dipendenze, in modo diverso ma con la stessa, drammatica, umana profondità. Sarebbe fuorviante, a mio avviso, riflettere sui metodi terapeutici e sull’organizzazione, prescindendo da questo presupposto: non è di una contrapposizione tra “noi” e “loro” che si parla, non di una divisione tra assistenti ed assistiti, ma di un incontro. Di tanti, continui incontri di fragilità. Non casi da analizzare, ma incontri tra persone, strade da percorrere assieme.

Ed è su questa idea di fragilità che vorrei riflettere.

Ricordo una poesia, letta ai tempi della scuola: “la Ginestra” di Leopardi, o “fiore del deserto”, la sua ultima opera, in qualche modo il suo testamento umano e poetico. Nelle strofe che la compongono, Leopardi dipinge un paesaggio, quello delle pendici del Vesuvio, il monte sterminatore, un paesaggio aspro, cattivo, desolato, sterile. E sopra questo sfondo dipinge un fiore, o meglio, tanti fiori: la ginestra appunto. Il suo simbolo per raccontare la condizione umana, l’unico fiore capace di crescere in questo deserto di roccia. Ma da cosa nasce la capacità di questa pianta, la sua forza di vivere, la sua resistenza? La risposta del poeta è straordinaria, nella sua semplicità: la ginestra non nega la sua fragilità, il suo essere esposta continuamente alle intemperie della natura, ma resiste appoggiandosi ad altra ginestra, con la solidarietà, una accanto all’altra, come uomini ad altri uomini, come, dice Leopardi, l’umana compagnia. La risposta alla morte del Vesuvio è in fiori abbracciati “con vero amor”, porgendo ed aspettando aiuto “negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune”.

Quanti Vesuvi nelle nostre vite, nelle nostre città, nelle nostre comunità a volte! Quanta sterilità e quanto deserto! Quanta frustrazione, quanta impotenza, quanta paura! E quante volte corriamo il rischio di isolarci sulle pendici del nostro personale Vesuvio, soli, chiusi in noi stessi … e tante volte con la voglia di mollare tutto …

E quante volte ancora ci scopriamo ad osservare il deserto degli altri, dei nostri ragazzi in primis, da lontano, senza farci ginestra accanto a loro, corazzati dietro le piccole certezze della nostra scienza e delle nostre tecniche, ma senza la forza di crescere accanto alla loro povertà, di sostenerci a vicenda

Ma povero e povertà non sono categorie solo sociologiche. In ognuno di noi è nascosta una zona di povertà dalla quale fuggiamo, ci nascondiamo e ci difendiamo. Nell’illusione che negare ogni debolezza ci renda più forti. In realtà nessuno di noi è profondamente sé stesso sino a quando non riesce ad abbracciare, con libertà, delicatezza ed affetto, la propria fragilità. Una fragilità che va custodita. In quell’incontro è nascosto il segreto della nostra autenticità. La parte “piegata” di noi ci ricorda che siamo chiamati ad alzarci, per ritrovare primavera e speranza, per noi e per chi ci sta accanto.

In una società orientata al successo, schiava dell’immagine e di un’economia totalitaria, in cerca di superuomini, che di fatto ci impone uno stile di vita che nega ogni fragilità, pena l’esclusione dai circuiti, testimoniare autenticamente il messaggio di solidarietà, e di speranza aggiungo, partendo dalla piena consapevolezza della propria debolezza ed inutilità, non è solo difficile, ma a volte può apparire paradossalmente folle. Ma è questa la follia che ci salva, che ci permette di prenderci cura anche degli altri, di farci ginestra accanto a loro, sul loro deserto … di farli diventare ginestra sul nostro. È un utopia, un’illusione? O un sogno in cui continuare a credere? Non sono nate così, su questo sogno, tutte le nostre comunità? Non siamo chiamati a dare sempre speranza? Se la normalità di questo tempo è il deserto, il grigiore degli interessi privati, il vuoto dei valori e delle speranze, il disincanto, è paradossalmente più saggio farsi folli, ritrovarsi fragili accanto ai fragili, scegliendo ed abbracciando la loro salvifica a-normalità, per diventare colore, macchie di luce sul nero, ginestra sul Vesuvio. Anche perché chi è più vicino all’essenziale se non chi è folle? Ciò che dico non vuole essere assolutamente una banalizzazione, una negazione poetica del disagio psichico, ma il suo esatto contrario: la scelta di una presa in carico totale della persona e non solo del suo problema, di una condivisione non asettica delle sue sofferenze ma anche di una valorizzazione reale dei suoi talenti, possibile solo con un percorso comune, fedeli alla scelta di specchiarsi nell’altro, come recita la nostra filosofia, anche quando lo specchio è incrinato o deformante.

E allora il lavoro ridiventa ricerca, ridiventa impegno, ridiventa speranza. È una grande sfida quella del nostro oggi che necessita di una grande passione e di un grande amore.

Di aiuto ci saranno tutti gli strumenti tecnici a nostra disposizione e chissà che i nostri nuovi ragazzi non si trasformino, o non siano già, quella piccola volpe del piccolo principe, capace di addestrarci, o meglio, addomesticarci per questa nuova sfida, arricchendoci di umiltà e privandoci dell’orgoglio e mettendoci di fronte alla nostra paura, la paura di fallire. Forse anche questo scenario ha un senso per la nostra attività e soprattutto per il nostro modo di essere.

Si scopre allora che il talento messoci in mano da Dio ci salva, li salva. È la parte preziosa che è in noi, che nessuna esperienza di male può mai intaccare. Il mio augurio di oggi è quello di imparare ad essere attenti e caparbi ricercatori di questo talento nascosto, come il pescatore di questo poema del monaco indiano Swami Paramananda:

“La perla di grande valore giace profondamente nascosta.

Come un pescatore di perle, tuffati, anima mia,

immergiti nel profondo!

Spingiti ancora più in fondo e cerca!

Forse non troverai niente la prima volta.

Come un pescatore di perle, anima mia,

insisti, insisti ancora,  senza stancarti,

immergiti nel profondo, sempre più in fondo, e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

rideranno di te,

e tu ne sarai rattristato;

ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di grande valore è nascosta,

nascosta nel profondo.

La fede ti aiuterà a trovare il tesoro,

e porterà finalmente alla luce

ciò che era nascosto.

Immergiti nel profondo, sempre più in fondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.”

È il viaggio verso il senso essenziale della vita. È quel cammino necessario perché la nostra vita torni sempre a riempirsi di bellezza serena. Bellezza che possa guarire le ferite della nostra anima. E che restituisca il senso della libertà: la libertà di essere responsabili e la responsabilità di essere liberi.

di Don Mimmo Battaglia – Presidente FICT