Ancora Natale, e quale augurio quest’anno? Ci auguriamo sempre di tutto, abbondanza, ricchezza, salute … e ci crediamo pure.

Eppure quest’anno vorrei augurare a tutti un Natale al contrario, un Natale “senza …”. A me, alla mia comunità, alla mia città … si, un Natale al contrario, un Natale “senza …”.  Vorrei che per quest’anno potessimo sostituire il segno “più” con il segno  “meno”: meno immagine, meno abbondanza, meno addobbi.. un Natale in cui togliere piuttosto che aggiungere. E non per la crisi, quello è un altro discorso.

Un Natale sotto il segno del meno è forse più vero, una specie di magia che ci riporta indietro, indietro nel tempo della nostra vita in un istante preciso: l’istante in cui siamo venuti al mondo, in cui siamo diventati creature, prima eravamo sogni! Neonati senza ricordi, senza il dolore che avremmo poi vissuto o causato, senza le parole dette o ascoltate, senza gli incontri che hanno cambiato nel tempo il corso della nostra storia. Un Natale “senza”.

Neonati , come in una mangiatoia di molti secoli fa. Nudi, senza un abito buono o stracciato, senza il vestito della festa o la borsa di moda, senza le toppe sugli ultimi jeans che ci sono rimasti, senza. Né poveri, né ricchi. Nudi!

Neonati senza un titolo e senza un’immagine da difendere o da voler modificare, senza un ruolo o una maschera da indossare. Solo creature, nella loro semplicità ed essenzialità.

Bambini e non signori o  dottori, ingegneri, onorevoli, presidenti, professori. Bambini e non tossici, delinquenti, emarginati, carcerati, immigrati. Bambini. Semplicemente bambini. Senza  medaglie o successi, senza ferite o cicatrici.

Vi auguro un Natale “senza”, perché è l’unico Natale in cui possiamo scoprirci liberi. Liberi dal dover fare, dal dover sembrare, dal dover dimostrare, liberi dai bisogni che ci siamo costruiti o da quelli che ci hanno imposto. Liberi di abbandonarci ad un altro, all’Altro, ad una madre, ad un padre, ad un figlio, ad un amore, ad una comunità che, in semplicità, si prenda cura di noi, dei nostri bisogni autentici, quelli che ci rendono umani: calore, protezione, attenzione, amore. Liberi come i gigli del campo, come un neonato in una mangiatoia.

Indifesi come un neonato, indifesi ma non deboli. Perché un neonato in una mangiatoia non ha forza, ma la trova nelle braccia di un padre che lo solleva, di una madre che lo stringe al cuore.  E impone nel mondo un  nuovo modo di respirare, dove il sospetto cede alla confidenza, la vendetta è disarmata dal perdono, e forse verrà un giorno in cui saremo tutti liberi e vulnerabili, senza più la paura di essere aggrediti o usati  dagli altri.

Vi auguro un Natale “senza”, un Natale un cui non camuffare la nostra solitudine nell’ubriacatura di una folla, in cui non negare la nostra solitudine dimostrandoci  come altri vorrebbero  che noi fossimo ma, al contrario, abbracciare quell’unica solitudine che ci permette di essere sempre noi stessi fino in fondo. Quella solitudine in cui ci costruiamo come persone capaci di amore, la  stessa solitudine di Giuseppe sulla via di Betlemme, con i suoi pensieri, i suoi dubbi e le sue paure, con la sua forza di scegliere sempre e comunque il sogno, la forza del sogno. Perché il sogno è sempre possibile.

Un Natale “senza”, in cui anziché il dono, possiamo scambiarci il perdono. Perdono sotto il nostro albero: per noi stessi innanzitutto, per i nostri sbagli, per la nostra vita che è più grande di ogni errore.  Perché la vita non coincide mai con i nostri sbagli né con le sue fratture. È sempre più grande. Perché, come un neonato, noi siamo infinito. Vuol dire che il bene possibile domani vale più del male di ieri.

Auguro un Natale “senza” anche a voi che non vivrete un Natale. A voi che avete perso il lavoro o non lo avete mai trovato , a voi che avete perso la casa, che avete perso l’amore, che avete perso la fede. Un Natale “senza”  è il Natale che parte dal nulla con un dono solo, ma più grande di tutti:  la speranza. Una speranza che è concreta, che è nel miracolo del vostro arrivare a sera, che è nella sacralità di ogni vostra lacrima, di ogni vostro sospiro. Che è nel domani che arriverà comunque, nel vostro esserci a pugni chiusi. Speranza che giace e fiorisce nel buio e nel freddo della vostra disperazione, nel vostro non arrendervi. Nel vostro ostinato restare umani.

È in questo restare umani il senso del Natale che voglio augurarvi, in quella Umanità essenziale che Dio ha scelto. Rinunciando all’onnipotenza, all’assoluto, all’infinito, ha scelto la nudità, ha scelto il “senza”, ha scelto l’umano, l’Umanità. Solo per amore.

Dio non cerca in me il giusto che non so se riuscirò mai ad essere. Cerca quella debolezza che è in me radicale, originaria, fatale. Vuole appropriarsi della mia debolezza profonda, quella che è a monte di tutti i miei sbagli. E lì vuole incarnarsi come lievito, come sole, come fuoco, come spirito dentro la creta, come pace nella tempesta.

Lì, in quel centro, lì dove risiede il sogno, nell’oscurità dell’inconscio, in quella intimità che non si comunica a nessuno, né all’amico, né allo sposo e neppure a se stessi, all’ origine dei sogni, dei miti, dell’amore, lì vedi un volto che non è il tuo volto. L’assoluto prende carne in te. Dio scopre se stesso in te. Dio non è lontano da te, è la tua massima profondità.

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare.La nostra vita non è raccogliere o arrivare ma partire ogni giorno, seminare ad ogni stagione. Vivere è abbandonarsi alla relazione che ci fa esistere: nasciamo da una relazione, rinasciamo ad ogni relazione. Autentica, sincera, profonda.

Allora vivere  il natale “senza” è riscoprirsi uomo di frontiera, uomo attraversato, abitato, sollevato,terra di approdo e molo di partenza e ali che sollevano, e compassione e tenerezza cha sanno prendersi cura, e parola che viene da altrove. Prendersi cura della vita, per guarire la vita. O almeno, per prenderci cura di greggi e di messi, di dolori e di ali, per custodire la vita con la nostra vita.

di Don Mimmo Battaglia – Presidente FICT