I giovani sono tornati. Con prepotenza, con continuità, con una vivacità sempre maggiore riprendono a riempire lo spazio dei nostri dibattiti pubblici, delle nostre trasmissioni di approfondimento, le pagine dei nostri giornali. I giovani sono tornati … ma non è che se ne fossero mai andati:  è che non ci facevamo caso più di tanto, se non nelle nostre verifiche di routine o in seguito a qualche sporadico episodio di cronaca. E insieme a loro è ritornato un fantasma: il disagio giovanile. Quanto ci piace questa espressione!

Non ringrazieremo mai abbastanza qualche ignoto sociologo americano che, negli anni ’50, ha inventato per noi questa categoria. Il disagio giovanile … ! Ci torna spesso comodo, per semplificare questioni complesse o per giustificare quello che non comprendiamo. Lo ripetiamo in coro, sempre, come un mantra: il disagio giovanile, prima causa e prima spiegazione di ogni aspetto che ci interroga, quando parliamo di donne e di uomini non più bambini e non ancora adulti. Ma come ogni dogma, come ogni altro slogan, le domande di senso su questa categoria latitano. E allora mi sembra giusto e doveroso interrogarci a fondo su questo. Mi chiedo e chiedo a voi: ha ancora senso utilizzare questa categoria sociologica? E inoltre, quando ci richiamiamo a questo semplice schema del pensiero, a quale disagio pensiamo? a quello fisiologico dei cambiamenti evolutivi, quello che tutti abbiamo attraversato e che ci ha fatto scoprire un’identità, o a quello patologico che sfocia nelle dipendenze, nell’antisocialità o nella sofferenza psichica? E arriva la domanda più critica: in tal caso possiamo ancora continuare a considerarlo limitato all’universo giovanile o piuttosto più esteso a tutta la nostra società? Un disagio dei giovani o un disagio degli adulti? O forse di entrambi…!?!

Non avrebbe senso però, aprire questioni senza cercarne insieme le risposte, solo per il gusto di stimolare il pensiero. Proviamo allora a delinearne un quadro. Pensiamo alla nostra questione delle dipendenze e, in generale, dell’uso di droghe. Un tema, da sempre, legato nelle nostre teste ad immagini di giovani e gioventù: Woodstock e gli hippy, la bande di strada nelle metropoli, la noia dei gruppi di ragazzi nei piccoli bar di provincia … storie di ragazzi insomma. L’uso di droghe, nel nostro immaginario, è spesso correlato ad un orizzonte di ricerca di senso: riempire i vuoti, “aprire le porte della percezione”, espandere la mente. Ancora pochi giorni fa, giornalisti fuori dal tempo e pertanto pericolosi, esaltavano l’uso di LSD fatto dal famosissimo Steve Jobs come strumento per accrescere il suo naturale potenziale creativo, contribuendo a farne un genio dell’informatica e del marketing mondiale. Ma temo che, anche in questo caso, dobbiamo aggiornare il nostro campionario di immagini ed aspettative: gli stili d’uso delle sostanze stupefacenti sono cambiati drasticamente rispetto agli anni ’60 e ’70. Oggi, le droghe, lungi dall’essere strumenti di contestazione del sistema, di isolamento riflessivo o di geniale ricerca artistica, sembrano rispondere più a bisogni immediati che non a bisogni esistenziali e di senso. C’è una droga per ogni necessità: divertimento, performance, opportunità d’incontro, riduzione dello stress, socializzazione. È una legge del mercato: analizza i bisogni e produci l’offerta. E, se non bastasse, c’è una legge del nuovo mercato globale: produci l’offerta e poi crea il bisogno!

Quanto dico, fa riferimento a tutto il mercato delle droghe illegali, è ovvio: si pensi al fenomeno esplosivo della cocaina, ma anche a quello grigio e parallelo delle droghe legali (psicofarmaci, stimolanti, alcol) o addirittura alle sempre crescenti forme di dipendenza comportamentale (internet, shopping, dipendenze affettive).

E chiariamo un punto: adulti e giovani si confrontano su questo campo di battaglia con le identiche armi, con le medesime strategie, con le stesse vittime. Adulti e giovani cedono alla ricerca di risposte nella chimica delle droghe, adolescenti foruncolosi e potenti avvocati, universitari contestatori e medici stimati, disoccupati divorati dalla noia e politici dalle agende istituzionali zeppe d’impegni.

Adulti e giovani trovano nell’alcol un collante sociale, un ingrediente essenziale per le serate tra amici. Forse gli adolescenti, come in un eccesso di ritualizzazione, aspirano sempre di più alle ubriacate già programmate, a quello che noi “dotti” chiamiamo binge drinking; ma gli adulti recuperano terreno, in questa insana partita, facendo un ricorso crescente e spropositato di psicofarmaci e stimolanti d’ogni tipo.

Addio all’idea comoda e, tutto sommato, rassicurante, del disagio giovanile, allora. Ad un’osservazione un po’ più attenta appare chiaro ed evidente che c’è un disagio più grande e pericoloso, potremmo definirlo “di sistema”, che trasversalmente colpisce giovani ed adulti in egual modo.

Questo nuovo spettro di disagio si traduce, nella sua manifestazione più evidente, in un’assenza o, comunque, in una progressiva erosione, di qualsiasi universo valoriale, nella resa educativa, nell’incapacità di progettare un futuro, nel progressivo isolamento di ciascuno. Una società intera, la nostra civiltà occidentale, è perciò in crisi ed “additiva”. Non è mia intenzione però cavalcare l’onda del pessimismo e del nichilismo, dipingendo scenari apocalittici in cui non c’è più margine di speranza, salvezza, profezia. Mia intenzione è stata solo evitare di semplificare un problema complesso rifugiandoci in schemi vecchi, abusati e non più corrispondenti al qui ed ora.

Qui ed ora è necessario, invece, interrogarsi ancora, cercare insieme di disegnare scenari possibili di speranza, scoprire il seme di futuro e salvarlo, prima che sia soffocato dai rovi della disperazione, dal nulla che, come nella storia infinita, avanza divorando storie e sogni. Come possiamo noi, oggi, contrastare questo “nulla”?  Nella Storia Infinita di Ende ci sono due personaggi che si contrappongono al nulla: il primo è Atreyu, il forte, l’eroe per definizione, con il cavallo bianco e lo sguardo fisso, col cuore senza macchia e senza paura. Noi, un eroe così, non ce l’abbiamo, purtroppo o per fortuna, Brecht diceva “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”…

Poi c’è l’altro personaggio, Bastian, il pavido, il ragazzino intimorito dai potenti e dai prepotenti, il solitario, il sognatore. Bastian che non sa più comunicare con i suoi amici, con suo padre. Bastian che porta dentro un dolore. Bastian che è ognuno di noi. Che, alla fine, sconfigge il Nulla.

Questa immagine letteraria ci dà un primo, fondamentale insegnamento: è dalla fragilità che può venire la salvezza. È ancora una vecchia categoria di pensiero, quella che ci spinge a considerare la fragilità come un limite e la forza come una virtù. Ma è la stessa categoria che ci ha portato a ricercare chimicamente la forza che non si possiede, ad inseguire pseudo-valori inumani di violenza: il potere, il successo, la ricchezza, l’immagine. È una rivoluzione del pensiero, una rivoluzione delle azioni. Non è cercando il potere che riusciremo a combatterlo, la storia degli ultimi secoli ce lo insegna. Non è la violenza cieca dei black bloc che può fermare la violenza del capitalismo mondiale che, invece, ci vede benissimo. È la nostra fragilità messa a nudo, condivisa con le fragilità altrui, riconosciuta ed accettata come valore, che si fa rivoluzione, si fa cambiamento, non violento e radicale. È stato così, ad esempio, nella campagna referendaria in difesa dell’acqua pubblica: milioni di piccole parole, sommesse e responsabili, sono diventate un urlo di cambiamento, senza poteri, senza deleghe, senza violenze. Ripartire da una fragilità consapevole e condivisa può essere l’inizio di una silenziosa ma profonda rivoluzione culturale. Ma attenzione, non deve essere un discorso filosofico da relegare nell’Iperuranio delle nostre coscienze individuali, è un discorso concreto, politico, economico, sociale. Ripartire dalla fragilità vuol dire che al primo punto delle nostre agende ci deve essere la difesa dei più piccoli, dei più deboli, dei più esposti. E già questo è ricostruire valori, è un primo solido scoglio di giustizia a cui aggrapparsi nella liquidità terribile profetizzata da Bauman: la solidarietà rende la fragilità una forza. Come nella Ginestra di Leopardi, il suo ultimo canto, in qualche modo il suo testamento umano e poetico. Nelle strofe che la compongono, Leopardi dipinge un paesaggio, quello delle pendici del Vesuvio, il monte sterminatore, un paesaggio aspro, cattivo, desolato, sterile. E sopra questo sfondo dipinge un fiore, o meglio, tanti fiori: la ginestra, appunto. Il suo simbolo per raccontare la condizione umana, l’unico fiore capace di crescere in questo deserto di roccia. Ma da cosa nasce la capacità di questa pianta, la sua forza di vivere, la sua resistenza? La risposta del poeta è straordinaria, nella sua semplicità: la ginestra non nega la sua fragilità, il suo essere esposta continuamente alle intemperie della natura, ma resiste appoggiandosi ad altra ginestra, con la solidarietà, una accanto all’altra, come uomini ad altri uomini, come, dice Leopardi, l’umana compagnia. La risposta alla morte del Vesuvio è in fiori abbracciati “con vero amor”, porgendo ed aspettando aiuto “negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune”.

Ecco la traccia, che non è poesia ma necessità improrogabile. Ma che richiede impegno e sacrificio, capacità di cambiare e mettersi in moto, che richiede studio e, come ogni studio, richiede maestri. Così il quadro si può ricomporre: chi possono essere i maestri di questa nuova, necessaria rivoluzione? Chi, se non i nostri ragazzi, i giovani, fragili per condizione esistenziale, rivoluzionari per imposizione anagrafica, precari per vocazione e per destino, costruttori di presente e di futuro per profezia. Sono loro la domanda e la risposta, i protagonisti ed i piccoli maestri del cambiamento possibile. Loro che hanno nel DNA la ricerca di un senso, possono battere la strada, indicandola a noi che abbiamo smesso di cercarlo, noi persi nella rassegnazione, noi, profeti del nichilismo di cui li accusiamo. Noi che ci siamo arresi. I giovani sono tornati: tocca a noi scegliere da che parte stare. Vogliamo continuare a guardarli da lontano, analizzarli sotto il vetrino dei nostri laboratori come uno strano virus, un germe, una patologia? O vogliamo invece incontrarli, in  parità, donne e uomini, in reciprocità, ascoltando e lasciandoci ascoltare, aiutando e lasciandoci aiutare, accompagnandoci a vicenda verso l’ignoto di un domani che spaventa noi quanto loro? Un’ultima riflessione per chiudere, un’ultima immagine. Lo scorso agosto, in una piazza di Madrid, due grandi gruppi di giovani si sono incontrati, contestati, scontrati. Alcuni erano lì perché chiamati da una scelta di Fede, per sentirsi Chiesa e quindi “assemblea”, per essere cattolici e quindi “universali”, in cerca non di un’identità che li chiuda dal resto del mondo ma di unità e fratellanza che li invii perciò nel mondo, per costruire la pace. Questi erano la Pace.

Gli altri erano lì da tempo, per rivendicare dignità e libertà, chiedere diritti e suonare la sveglia ad un’Europa che dorme. Erano lì perché nessuno potesse più chiamarli contenitori da riempire o consumatori passivi. Erano lì per rabbia, per amore, per indignazione, per costruire giustizia. Gli uni erano la Pace, gli altri erano la Giustizia.

E allora perché il confronto aspro, il non riconoscimento dell’altro?

E noi, mondo adulto, noi che osservavamo da lontano sui nostri schermi e nei nostri giornali, noi, da che parte stiamo?

Noi abbiamo un compito, antico e sempre moderno, un compito che stiamo provando a rifiutare ma che la storia ci riassegna come un inevitabile dovere nei confronti nostri e del nostro mondo: noi dobbiamo essere educatori, non ci è concesso il contrario. Siamo sempre educatori. Perciò, dobbiamo riprenderci la strada e il tempo, il ruolo attivo che ci spetta nel mondo e che stiamo ancora delegando o vivendo con distacco e rassegnazione. Metterci anche noi, accanto ai nostri figli, alla ricerca del senso che abbiamo smarrito, trovarlo questo senso o, meglio, costruirlo insieme. Dobbiamo quindi essere voce e vita, essere il collante che unisce ciò che è diviso, che salda l’impegno sociale e politico con la ricerca spirituale, che testimonia che l’uno e l’altra da soli non bastano, saldare la vita alle parole e le parole alla vita, essere la linfa che collega e nutre i fiori della ginestra.  C’è bisogno di spiritualità, ma di una spiritualità vera e viva, aperta e colorata. Credibile.

Dobbiamo stare lì, in quella piazza e in quelle strade dove si incontrano quelli che sono la Pace e quelli che sono la Giustizia, ed essere ponte. Su quel ponte, come la profezia dice, “giustizia e pace si abbracceranno”

Sac. Mimmo Battaglia – Presidente FICT