Scrivo queste righe di ritorno da un viaggio in Honduras, il secondo tra i Paesi più poveri del pianeta. E’ duro il compito di scrivere del nostro mondo del sociale mentre ho ancora impresse negli occhi e nella testa le immagini di un altro mondo, di una miseria ingiusta e profonda che condivide il nostro tempo. Immagini di bambini soprattutto, che al di là di ogni facile commozione, danno la dimensione di un dramma di oggi. Si dice che i bambini siano considerati “indicatori economici”, per me sono indicatori etici della società.

 

 

Questo indicatore ci dà la misura di quanto il modello di sviluppo a cui ci stiamo adeguando sia ingiusto e insano. Ero da poco uscito da “Casa Alianza”, comunità che accoglie centinaia e centinaia di bambine e bambini di strada, vittime della miseria e dello sfruttamento. Solo in Honduras diecimila sono i bambini sfruttati, anche sessualmente, e sulla strada ventimila non hanno neanche un documento d’identità, non sono di nessuno, come se non esistessero.

Carne da mercato quindi, merce da vendere e acquistare.

Stavo facendo un giro per le periferie quando mi sono accorto che, presso la sponda di un fiume di fogna, stavano giocando dei bambini, che poi si sono tuffati dentro a quella fogna come se si fossero tuffati nel nostro mare. Più avanti delle bambine che, dentro alla stessa fogna, stavano facendo il bucato. E vicino, un campo di calcio o quello che ne rimaneva , una reliquia rimasta in vita dalla devastazione dell’uragano Mitch e, dentro questo campo, almeno quaranta bambini dietro a un pallone.

Tristezza e rabbia sono stati i sentimenti che ho provato. E una grande voglia di piangere. L’ho riportata a casa quest’immagine, assieme alle mie emozioni ancora racchiuse dentro. E non posso non confrontarmi con esse ora, scrivendo del nostro mondo, del nostro “sociale”. Di questo universo frammentato e sfuggente, di questo puzzle complesso in cui si intrecciano impegno e abbandono, attenzione e distrazioni, speranze e lamentele.

Tante, troppe lamentele e poche maniche rimboccate.

La rabbia mi urla ancora dentro, leggendo l’ingiustizia racchiusa dentro al nostro frequente piangerci addosso: viviamo nell’oro, in realtà, ma in un oro “rubato”. Ritorna prepotente l’immagine della fogna e immagino molti di noi, qui, una parte di quello strano universo del sociale, in piedi ai margini di quel corso d’acqua, col naso turato per non sentirne gli odori, ma con lo sguardo attento, come sulle sponde di un torrente del Klondike, ad aspettare che dall’acqua si possa guadagnare, ne possa uscire qualche pepita d’oro.

Sono in tanti ad arricchirsi sulle fatiche dei poveri, che vivono anche sulle nostre strade, degli ultimi, dei vulnerabili. I poveri in questo territorio ci sono, esistono, hanno nomi e cognomi, e non possiamo far finta di non vederli. E contemporaneamente assistiamo a sponsorizzazioni sociali che creano solo immagine, spettacolarizzando, in nome della solidarietà, la fatica e la sofferenza della gente. Non si può e non si deve strumentalizzare, per nessuna ragione, la fatica di chi arranca.

La solidarietà, fatta sotto i riflettori, è sempre ambigua. Il rischio è che anche il mondo del sociale, staccato da un’etica condivisa, segua il facile percorso di allineamento al pensiero unico, al sistema economico del mercato globale, dove ogni cosa, ogni persona, ogni idea, ogni valore, diventano solo strumenti di produzione e guadagno. Il rischio è perdere la strada e gli obiettivi di fondo e con essi la dignità e l’unicità, per farci servi, inchinarci alla misera sacralità del nuovo idolo.

Un’altra immagine mi segue dall’altra parte dell’oceano: ero affacciato alla finestra nel centro di Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, sullo sfondo di una collina osservavo le favelas. In alto, sulla collina, l’insegna grande della Coca Cola.

L’impressione visiva è che quelle case fossero inginocchiate, crocifisse ai piedi dell’insegna. Lei, la regina incontrastata in alto, e tutti, ai suoi piedi. E’ l’immagine del mondo di oggi, forse anche del nostro mondo del sociale. Ed è un’immagine che fa paura e genera l’urgenza di una riflessione, di una rilettura dei nostri percorsi. La necessità di sollevare la testa dai nostri impegni quotidiani e dalla routine del nostro operare per guardare il nostro tempo dall’alto, da un punto di vista ampio e profondo, per chiederci dove stiamo andando, e in che modo stiamo percorrendo questa strada e per scegliere da che parte stare: se dalla parte delle favelas, dentro la fogna insieme a quei bambini o in alto, sulla collina, dalla parte della Coca Cola. Non ci sono vie di mezzo. Vuoi essere universale? “parlami del tuo villaggio!”.

Il volontariato, quindi, è chiamato a schierarsi. Non può rimanere neutrale. Deve saper cogliere il significato conflittuale della povertà, di tutte le povertà, quelle vicine e quelle lontane (Don Tonino Bello).

Ma i poveri non ti danno solo i loro problemi, ti danno anche la speranza, la forza di vivere, la solidarietà con gli altri, l’amore verso gli altri.

Recuperare il vero senso della solidarietà significa anche accogliere e fare proprio il valore della reciprocità. Reciprocità è una parola importante, impegnativa, necessaria.

Ma non sempre è presente come pratica e come valore anche nel nostro mondo dell’impegno solidale.

La relazione con l’altro non è solo atteggiamento etico: è direttamente cura, è cambiamento, è politica (Don Ciotti).

E questo vale per tutti i volti del disagio. Questo mi porta a un’ultima riflessione: non bisogna dimenticare la lezione fondamentale del volontariato sociale: che prima di ogni cosa, valore, ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie. Non ci sono i poveri generici, ma coloro che incontro, non i malati, ma i volti conosciuti del dolore, non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi ha incrociato il mio cammino.

L’etica del volontariato è quella dei volti. L’etica dei volti è l’etica di una responsabilità incarnata nel tempo e nei luoghi, a partire dalle relazioni concrete. Il volontariato sociale insegna in questo tempo di relazioni aride, corte e fragili, l’alfabeto della socializzazione responsabile, della presa in carico, del mettersi accanto, del non prevalere. L’etica dei volti è anche educazione ai sentimenti umani, del commuoversi, del cuore vigile e fragile. E rifiuta lo sfavillio delle facili e mediatiche emozioni, del caso, dello straordinario spesso indistinto, che lascia le cose come stanno. Essa dà spazio alla logica dell’umano, riconosce l’altro anche nella sua debolezza. Riconosce la dignità dell’uomo non nella sua forza, ma nella sua fragilità.

Don Mimmo Battaglia – Presidente FICT

Brano tratto da “Un filo d’erba tra i sassi” – Rubbettino Editore