Arrivai in Brasile, nella città di S. Paolo, alle prime luci dell’alba.
I miei occhi avvolsero l’irregolare spazio che avevo davanti
Balzò, immediato, il S. Paolo festoso, ricco, fatto di lustro e di immagine; un mondo incantevole e appagante anche per chi lo guarda.
Mi sembrò un colosso di ferro, messo lì, ben distinto, perché tutti lo ammirassero. Neanche gli stupefacenti toni del Creato, in quell’alba, riuscivano a confonderlo o a sbiadirlo. E giù, ai suoi piedi, in ginocchio, “le favelas”, impenetrabili.
Seppur ricche di luci accese, mi apparivano oscurate dalla miseria, dalla povertà

I poveri! quanti! ne incontrai ad ogni angolo di

strada, vicino all’accampamento dei rifiuti, sotto la pioggia, sui cartoni adagiati sul marciapiede in attesa della notte
E quanti giovani con lo sguardo errante e le mani vuote, fantasmi di se stessi!
Quanti bambini che, a piedi nudi, e gli occhi seri, ma colmi di rassegnazione, avevano la forza di giocare tra una mano tesa e l’altra protesa, ma entrambe piene di desideri
Come potevano essere felici quei bambini che si aggiravano tra i rifiuti maleodoranti?
Quante madri, relegate ai bordi delle vie con i propri figlioli al seguito, sembravano non occupassero quello spazio stanco
Donne, uomini, bambini, che non avevano paura del giorno affamato e incerto, né della notte vagabonda; non avevano nulla da perdere
Erano lì! Prigionieri, ma non arresi. Avvertivo la volontà di conservare la propria vita
I miei infaticabili poveri con la loro dignità sotterrata dall’elemosina, atto di una coscienza inquieta, che dall’alto fa scivolare un soldo, perché vuole tacere. “Ma loro non lo sanno – pensai – “Continuano a dire “gratias””
Mi sovvenne una frase che mia nonna mi ripeteva quando ero bambino:”Se vuoi essere caritatevole; se vuoi stare davvero dalla parte dei poveri, fa che la tua mano elargisca, ma che l’altra non lo sappia!”. Che lucida verità oggi più che mai, per la mia vita, per la mia lotta
In quella miseria affondai il mio dolore, a quella gente lo accostai; l’avevo incontrata e mi ero arricchito della sua umanità
Ma quel’è il senso di tutto questo? Sentii che Dio mi aveva dato un segno della sua presenza tra i poveri rivelandomi ancora di più il dono della carità, che dà significato a quell’umanità abbandonata
Carità, carezza di speranza per il cuore che sa soffrire senza il pregiudizio di chi ha davanti
Carità atto unico d’amore, urlo dell’uomo che supera i limiti e riconosce nell’altro quel se stesso accantonato, ma unico. “Al passo con gli ultimi, alla sequela di Cristo”
La prima visita del giorno seguente fu “La Santa Casa”, un grande ospedale sito nel centro di S. Paolo. Le lettighe sibilavano lungo i corridoi, mentre in me cresceva l’ansia. Mi arrivava l’odore pungente del disinfettante e pensavo a quelle migliaia di persone che erano nelle case colorate, forse senza più luci
E ancora una volta toccai con mano cosa significa dedicarsi agli altri per solidarietà, atto di reciprocità. E lì, pronti, veloci, ognuno con la propria storia, i medici, gli infermieri, i volontari, mi investirono. Era chiaro che lavoravano con amore. Fui toccato profondamente dai tanti, troppi bambini che riempivano il reparto di pediatria
Credo che non ci sia sofferenza più grande che nell’essere di fronte, impotenti, ai dolori fisici e psichici di anime innocenti
Gli stessi bambini di cui Madre Teresa amava dire:”Bambini da salvare, bambini da amare”. Mi avvicinai a Marco Lucio, neonato di appena sette mesi, che era stato “dimenticato” chissà in quale angolo di quel paese, forse da una madre così sfinita che non avrebbe più potuto occuparsi di lui
I suoi espressivi occhi erano lucidi; seguivano ogni mio piccolo movimento. “Mi vedrà enorme – pensai – forse ha paura di me!” Ebbi il timore che stesse per scoppiare in un pianto fragoroso, tipico dei bambini così piccini che non sai mai cosa li spaventa: se il naso, la mano o gli occhi!
Ma con mia sorpresa, Marco Lucio continuava a fissarmi. Con quei bellissimi occhi neri mi aveva messo a nudo. Mi chinai su di lui, lo accarezzai con delicatezza; rendendo leggera la mia mano più che potevo, perché la grande voglia di piangere, aveva reso forti i miei naturali movimenti. Sul capo gli feci il segno della croce, benedicendolo, con l’emozione che sempre mi accompagna e con la tenerezza di una vita raccolta in quell’attimo.
In quel piccolo volto, che forse non avrebbe mai avuto il sorriso, in quegli occhi, ancora una volta, incontrai Cristo
La sua croce mi tracciava la strada; segno vivo della sua presenza fra gli ultimi, tra i dimenticati, tra i non desiderati, dando senso e dignità a quell’umanità abbandonata e alla mia vita
Debolmente, strinsi a me il piccolo, per paura di fargli male, e lo accarezzai con tenero e amorevole abbandono. Percepii un’unica sofferenza, un unico amore, un unico uomo. E lì, Marco Lucio benedisse me per quella carezza e quell’abbandono confortati dalla speranza, che aveva desiderato, sognato da sempre, da ancor prima che venisse alla vita, tra noi. Uscii fuori, guardai il cielo…quell’occhio sulla vita!
Non possiamo rimanere indifferenti! Dentro di me canterò la tua vita, piccolo Marco Lucio, tra la gente

di Mimmo Battaglia – Presidente FICT

tratto da “Un filo d’erba tra i sassi” di Don Mimmo Battaglia, Rubbettino Editore