Pubblichiamo un intervento tenuto al Seminario “Dialoghi del Mediterraneo”, organizzato dall’Ist. Universitario “Progetto Uomo” (IPU) con l’Università maronita di Kaslik (Libano) e l’Università Pontificia Salesiana, a Roma. Gli Atti dell’intero evento sono pubblicati nel volume “Il mare accogliente. Educazione e misericordia nell’area mediterranea”, da Universitas Studiorum e reperibili presso l’IPU.

Il volto e i volti: non si riflette mai abbastanza sul fatto che essi rappresentano la chiave delle nostre relazioni quotidiane, sia reali che virtuali; anche se rimaniamo colpiti dagli attributi di un corpo, bello o sgraziato, rivestito in modo elegante o trasandato, comunque per riconoscerci, distinguerci e poi costruire una relazione, lo sguardo cerca un altro sguardo e si fissa sul volto che lo esprime.

Il volto dell’altro “Il volto dell’altro: differenza irriducibile che mi inquieta e mi risveglia” (E. Lévinas)

“Ogni giorno, incontrando gli altri noi posiamo lo sguardo sul loro volto. Se non posiamo lo sguardo sul loro volto, significa che vogliamo non vederli, non riconoscerli; li riduciamo a essere ombre, silhouettes, accanto alle quali passiamo per andare oltre… Ma se incrociamo un volto, se lo mettiamo a fuoco, ecco emergere davanti a noi un altro, certamente anonimo, senza nome, ma individuabile a causa del suo volto unico, irripetibile. Il volto è quello spazio preciso del corpo dal quale emanano sguardo e parola, è un luogo unico nel corpo dell’umano, è l’espressione della sua identità, visione, da cui “viso” (visum: “veduto, visto”) che ci permette il riconoscimento. (…)

Il volto è sempre manifestazione, epifania di un uomo o di una donna, è ciò che permette di dirlo/a persona, cioè una realtà attraversata dal suono, “parola verso”, che fa eco al suono (per-sona), o – per dirla con la lingua greca – una realtà che mi sta davanti, prós-opon, “sguardo verso”.

Nell’accendere una relazione, un rapporto con l’altro, prima di ascoltarlo noi lo guardiamo, guardiamo in particolare il suo volto. È il volto dell’altro, davanti a noi, che attira il nostro sguardo o lo respinge, che accende in noi il desiderio o inocula in noi il rifiuto. È il volto dell’altro che noi fuggiamo nella nostra memoria più di tutto il resto o, al contrario, custodiamo nel cuore per rinnovare la sua presenza. È il volto dell’altro che accende in noi il sentimento. Soprattutto, il nostro primo modo di cercare è lo sguardo: cerchiamo visi, cerchiamo il viso” [1].

E’ dalla nascita che parte questa ricerca.

Infatti, nell’interazione fra il neonato, la madre o il caregiver, la visone del volto di queste persone “da un punto di vista neurobiologico innesca nel cervello del bambino il rilascio di endorfine, sostanze che agiscono direttamente sulle regioni cerebrali sotto-corticali del cosiddetto ‹ circuito della ricompensa ›, che utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina” [2]. Incipit da cui si strutturano “le prime relazioni (interpersonali e familiari) che divengono prototipiche delle relazioni future, come illustrato dalla teoria dell’attaccamento e dal concetto di “sentimento sociale” [3], quale istanza innata nell’uomo che determina un bisogno di cooperazione e di compartecipazione emotiva con i suoi simili” [4].

Il volto come “porta”, dunque, che dischiude la nostra “caverna” esistenziale.

I mass media presentano, ormai quotidianamente, carrellate di volti che identificano persone delle più svariate età ed etnie, che riportano le stigmate loro inflitte da traversate rovinose del Mediterraneo, cui si sono salvate per miracolo.

Altri volti li vediamo mentre scrutano orizzonti fatti di binari ferroviari e cancellate o barriere mentre uomini e donne tentano di varcare frontiere interne della nostra Europa; altri ancora si nascondo sotto i burka o si mascherano., rendendosi ancora più inquietanti.

Il viso è la prima, se non la principale, propaggine della persona che la distingue e ci differenzia.

Beato Angelico e Caravaggio ne sono mirabile esempio nell’antitesi della loro pittura che mostra volti animati da estasi o tormento.

Già uno sguardo può non lasciare indifferenti; scrutare un volto equivale a leggere l’intimo di quell’individuo e l’accoglienza parte dal primo sguardo.

Occorre, qui, ricordare “la norma che regola le relazioni umane: ogni contatto tra due individui determina un effetto in entrambi. Tra due esseri umani non si dà incontro o conversazione – a meno che non siano puramente accidentali – che lascino immutato vuoi l’uno vuoi l’altro. (…) Persino un incontro casuale può avere una grande ripercussione” [5].

Sappiamo bene, infatti, quanto spazio attribuisce la Psicologia della comunicazione al non verbale e alla mimica e quanto nelle Tecniche del colloquio e dell’intervista, durante i nostri percorsi formativi universitari, si insista sia sul sapersi proporre all’altro sia sull’accoglierlo già dal primo incontro, addestrandosi a superare le proprie e altrui difese.

Saggiamente, Lévinas accosta all’immagine del volto quello della differenza irriducibile. Fuori da ogni romanticismo o da stucchevoli pietismi fa comprendere come il primo segnale che percepiamo e restituiamo nell’incontro è la differenza sostanziale che distingue ogni essere vivente della razza Homo sapiens sapiens.

Dall’immediata e inconsapevole metabolizzazione della differenza, ne scaturirà accettazione o rifiuto; serenità o paura.

Comunque, ribadisce il filosofo con lucido realismo, provoca inquietudine.

Potremmo azzardare che l’inquietudine è tale in quanto rompe il velo di indifferenza che solitamente ci difende mentre attraversiamo il mare magnum sociale.

L’indifferenza, figlia del narcisismo [6] contraddistingue particolarmente la nostra società delle metropoli, dei mass-media rutilanti, afflitta dal nichilismo, come doviziosamente illustrato da Galimberti [7].

Mascherati dietro ad essa, resistiamo alle ondate di sofferenza o di odio o di bisogno che tracimano dalla popolazione e assumiamo quell’anonimato che ci permette di esentarci dalla partecipazione, anzi ci porta a indignarsi di fronte al degrado dell’umanità e al moltiplicarsi di eventi inumani, quasi fossimo noi le vittime; “non a caso, agli antipodi della misericordia si colloca non tanto l’atto violento o aggressivo, quanto l’omissione” [8].

Nascosti dalla e nella città, adusi a spettacolari cronache televisive che indugiano sul melodrammatico e troppo attenti a salvaguardarci, deformiamo impercettibilmente ma progressivamente l’immagine dell’altro, soprattutto se protagonista di vicende che turbano l’omeostasi sociale e la nostra sicurezza, e lo allontaniamo almeno psicologicamente da noi.

Comunque la maggioranza si ritiene giustificata perché pur non avendo partecipato a nessuna opera di misericordia, non ha neanche contribuito a offendere o umiliare o a lasciare morire l’estraneo.

“L’inazione è la nostra condanna. Si potrebbe parlare anche di indifferenza. La più profonda negazione della misericordia sta nel far finta che gli altri non esistano, è il tirare dritto che fu del sacerdote e del levita, ma che più e più volte, è anche di tutti noi nella quotidianità del nostro esistere” [9].

E forse in questo ragionamento si radica il concetto appena citato di “estraneo” che descrive il non conosciuto, il non familiare, con cui non si hanno perciò legami o rapporti affettivi; sinonimo di straniero, verso il quale, secondo la nostra società dei diritti, non si contraggono doveri mentre nelle società più primitive si arrivava persino a considerare lo straniero sacro e l’ospitalità dovuta, forse perché si viveva sotto l’egida di Penia e non del consumismo di Abbondanza.

Persino per un popolo culturalmente chiuso e religiosamente autoreferenziale come quello ebraico, l’Antico testamento prescriveva : “Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete  come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Lv 19,33-34).

“Visi pallidi”, “musi gialli”, “pellerossa” o “negri” sono espressioni emblematiche di stereotipie socio-culturali pressoché irriducibili e figlie di un’inquietudine perversa perché la differenza provoca diffidenza o paura, soprattutto se si accompagna a orde di migranti poveri e bisognosi, talvolta pronti anche a tutto pur di sopravvivere.

Ecco che l’inquietudine, in genere per placarsi, provoca rifiuto.

“La figura dell’altro, è sempre e comunque, per certi verso, oggetto di paura, e lo è ancora dopo duemila anni di cristianesimo, e dopo migliaia di anni di storia dell’umanità. Lo è ancora ai nostri giorni se pensiamo che cosa vuol dire stabilire contatti con popolazioni e culture diverse” [10].

Ma esiste anche un’inquietudine proattiva.

Un’inquietudine di per sé positiva anche se mette in crisi; uno stato d’animo che prelude ad una ricerca, a superare lo statu quo, per cercare significati e costruire alternative. E’ quella situazione esistenziale che descrive S. Agostino nelle “Confessioni” e Tomas Merton nella “Montagna delle sette balze”; essa permette di “riposizionarsi” di fronte all’altro e gettare un nuovo ponte relazionale poiché intacca le false sicurezze dell’autoreferenzialità e le visioni egocentriche. E’ una forza che può spingere alla trascendenza cioè alla più alta forma di relazione.

Oppure si svela sotto forma di sollecitudine in quanto dall’incontro prende forma almeno un accenno all’accoglienza che, a sua volta, implica in qualche misura il mostrarsi disponibile, provocando ciò che Lévinas definisce il “risvegliarsi” .

Il risveglio della dimensione sociale e relazionale come atto propedeutico alla presa di coscienza della prossimità che richiama un’etica della cura e della preoccupazione, per cui la persona si costituisce come soggetto etico nella misura in cui risponde all’imperativo morale di assumere la responsabilità per l’altro laddove il più forte deve proteggere il più debole in ogni caso, rispondendo all’appello che viene dal volto dell’altro.

“Oggi forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti”; “l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione” [11].

Ma riconoscere e leggere il volto dell’altro non è operazione semplice o naturale, cresce con lo sviluppo del sentimento sociale, frutto di mediazione educativa.

Di conseguenza, oggi più che mai, credo fermamente che il ruolo dell’educazione risulti determinante ai fini del risveglio della coscienza, laddove pare che le persone abbiano più timore del peggio che non speranze,

per evitare l’annichilimento nell’omologazione del pensiero collettivo: essa deve svelare e nutrire il potenziale umano che, di conseguenza, riverbera nel sociale.

Contestualmente l’homo faber e l’homo tecnologicus si ripropongono continuamente quali dimensioni costitutive di una persona che ha dimenticato le profondità dell’essere e gli orizzonti dell’alterità. L’homo socialis si è atrofizzato, annichilito nell’omologazione di un welfare state, ridotto ad assistenzialismo generalizzato, e dal consumismo. E se l’avere contrasta l’essere, non c’è spazio per la misericordia, qui regna la spietatezza seppur mimetizzata sotto il “diritto”, però “… una società veramente umana deve avere un linguaggio comune del bene. Quello su cui si basa la nostra società – un linguaggio dei diritti – non contiene le parole per esprimere le dimensioni del bene umano che richiedono atti di virtù non definibili come obblighi legali o civili” [12].

Educare alla misericordia implica, dunque, discernere messaggi e gesti di accoglienza per scoprire quel sottile e tenace legame che vincola ai propri simili prima e oltre i confini tracciati dal diritto e dai diritti. Legame che prorompe, soprattutto, nelle situazioni di emergenza e/o sofferenza dove la catastrofe e il pericolo scuotono gli ingranaggi sociali stereotipati, svelano la finitezza e fragilità dell’uomo, sollecitano l’istinto di sopravvivenza  e il sentimento sociale per poi coagularsi in piccoli o grandi gesti che, in variabili parentesi spazio-temporali, ricompattono il corpo sociale.

Si deve educare non tanto all’eccezionalità e all’azione che si colora di pietà o eroismo quanto all’autenticità della relazione interpersonale nel quotidiano e alla catena di rapporti che collega l’umanità in un anelito dagli effetti più disparati, come il battito d’ali della farfalla che provoca l’uragano.

Educazione quanto mai necessaria per la compagine sociale odierna composita e contraddittoria. In essa troviamo semi di piante quanto mai differenti: isolazionismo, indifferenza e solipsismo; nel contempo: massificazione, globalizzazione, poliappartenenze… a scapito dell’interdipendenza e a favore dell’indipendenza e della soggettività esasperata. “L’uomo moderno è massificato, in larga misura “socializzato”, ma sostanzialmente è un isolato – (come, fra l’altro, dimostrano gli studi di Riesman). Poiché si è estraniato dai suoi simili, si trova a fronteggiare un dilemma: egli teme il contatto troppo intimo con gli altri e nel contempo ha paura di rimanere isolato e di non avere rapporti interpersonali” [13].

Educare alla prossimità, catapultandosi in una dimensione etica quanto mai salutare per dare senso al vivere, e suscitare “quell’estrema apertura intenzionale” che rende l’uomo “capace di ogni sorta di comunicazione con le cose, con gli altri” e con il Dio della sua fede, nonostante la “clausura ontologica e la forza individualistica” intrinseche alla persona [14].

L’uomo ben integrato nella sua identità è una persona capace anche di sani rapporti interpersonali, di confronto fra la propria situazione esistenziale e quella dell’altro, abile nell’usare misericordia come collante della prossimità.

Le conseguenze educative sono immani così come le implicanze etiche.

Educare il soggetto a sapersi porre criticamente verso sé stesso e le realtà, senza scivolare nello scetticismo e nel relativismo, restando fedele alle proprie convinzioni; educare alle rotture e alle incertezze, senza scadere nell’alienazione, per poter com-prendere l’altro e le altre dimensioni; educare ad usare il plurale per decifrare le realtà, a sapersi porre in equilibrio fra diverse opzioni di scelta.

Educare a quel processo a lungo termine denominato della “differenziazione comunicativa”, in cui ogni cultura deve farsi rispettare, inserendosi nelle reti di interdipendenze globali, secondo un pluralismo poggiante su incontro e differenze, evitando un’omogeneizzazione forzata e sradicata, l’assimilazione e la separatezza.

La domanda di Caino: “Sono forse io il custode di mio fratello?”, ritorna impellente a ricordarci la prossimità e pretende un’educazione ai rapporti, alla comunicazione in ogni ambito di vita in ogni suo aspetto onde evitare che Caino uccida suo fratello non necessariamente fisicamente ma con l’indifferenza o con la competizione selvaggia o con lo status sociale o con l’uso aggressivo dell’economia o del sapere o del ruolo familiare, sociale, lavorativo, istituzionale o con l’impulso agito per noia.

Qui vengono chiamate in causa tutte le agenzie educative: famiglia, scuola, chiese, enti e associazioni… a lavorare in primo luogo sulla relazione e sul rapporto interpersonale.

Il Rapporto Unesco (Delors, 1997) afferma che l’educazione “ci appare come mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di raggiungere i nostri ideali di pace, libertà e giustizia sociale” laddove per educazione si intende anche “cura della buona qualità della vita personale, individuale e comunitaria” per cui, nello stesso rapporto, vengono enunciati quattro pilastri sui quali fondare istruzione e formazione: due di essi sono l’imparare ad essere e l’imparare a vivere insieme, con gli altri.

“La coscienza pedagogica contemporanea spinge a non limitare l’educazione al momento della pura trasmissione della cultura e del sapere. Ad esso viene inderogabilmente collegato il momento della personalizzazione. (…) Il rapporto e la relazione educativa diventano il centro focale e dinamico dell’azione educativa” [15].

“L’educazione avrebbe da aiutare a farsi le buone attrezzature per intraprendere il cammino, stimolare a non perdersi e non smarrirsi, anzi a sapersi orientare, sostare quando c’è bisogno, riprendere il camino, facendo strada insieme, evitando brutti incontri, facendosi prossimo e diventando buon samaritano per chi incappa in briganti” [16].

In quanto figli delle tre grandi religioni monoteiste, che dal Mediterraneo si sono irradiate, dobbiamo riflettere, come Giona, di fronte alle Sacre Scritture che rivelano un volto di Dio ricco di umanità, più che di intransigenza, a differenza di noi uomini, e ci educano a riconoscere nel volto dell’altro i nostri tratti fondamentali cioè i lineamenti di una fraternità intima che, per il credente, è immagine e somiglianza di Dio stesso.

di prof. Nicolò Pisanu

 

[1] Bianchi E., Il volto di Dio: affidabile, Convegno: “Sindone e vita di fede”, Torino, Centro congressi Santo Volto, 16 marzo 2013, http://www.diocesi.torino.it/diocesitorino/allegati/33922/Volto%20di%20Dio%20TO-Enzo%20Bianchi.pdf, pp. 1-2.

[2] Mundo Emanuela, Neuroscienze per la psicologia clinica – le basi del dialogo mente-cervello, R. Cortina, Milano, 2009, pag. 69.

[3] Concetto coniato da Alfred Adler,

[4] Pisanu N., Psicobiologia dell’educazione. Chimica della mente e alchimie relazionali, Collana Le Api, IPU, Vitorchiano, 2010, p. 4.

[5] E. Fromm, Da Avere a Essere, Mondadori, Milano, 1991, pg. 39-40.

[6] Freud S., Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, Boringhieri, Torino, 1975, vol. VII.

[7] Galimberti U., L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano, 2007.

[8] Piero Stefani, Le donnole del rabbi. Compassione e misericordia nell’ebraismo, EDB, Bologna, 2016, p. 5.

[9] Piero Stefani, op. cit., p. 6.

[10] Ravasi G., Il muro e la porta. Esclusione e accoglienza nelle pagine della Bibbia, EDB, Bologna, 2015, pp. 41-42.

[11] Enciclica Sollicitudo rei socialis, par. 26 e 39.

[12] M. Ignatieff, I bisogni degli altri, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 10.

[13] E. Fromm, op. cit., pg. 39.

[14] B. Mondin, L’uomo chi è ?, Massimo, Milano,1982, p. 359.

[15] C. Nanni, Pensare l’educazione, IFREP, Roma, 2001, p.13.

[16] C. Nanni, Pensare l’educazione, IFREP, Roma, 2001, pg.16-17.