“Siamo in tanti, centinaia di persone. Siamo sacerdoti, religiosi e laici; persone che provengono dal programma terapeutico, passate quindi dall’esperienza della droga, e persone che questa esperienza non l’hanno avuta; siamo genitori, insegnanti, laureati, diplomati, studenti, operai, impiegati, credenti e non credenti, appartenenti a diverse espressioni politiche. Siamo persone che hanno fatto una scelta: lavorare insieme nel campo dell’emarginazione per superare le barriere che ancora impediscono a tanti uomini di sentirsi veramente liberi e protagonisti della propria esistenza”. Scriveva così don Mario Picchi negli anni ottanta in una lettera aperta alla Federazione.
Intervento all’ incontro “Costruire insieme il futuro…” con i Centri FICT 10/11 maggio
Sono passati più di 30 anni e siamo ancora qui, in cammino, anzi, in corsa, dall’altra parte della strada.
Se non ci fosse stata la ferrea fede di alcuni uomini e donne, il loro insofferente bisogno di non rimanere impassibili e inerti, forse, tutti noi oggi non saremmo qui. Come loro, anche noi, scegliamo ogni giorno di sporcarci le mani e di schierarci.
Il sogno della solidarietà, della gratuità, del rispetto dell’essere umano in quanto tale, continua ad essere un modello di cura: il credere nei valori, il testimoniarli con la propria vita, il coraggio di mettersi in gioco, riescono a provocare il bisogno del cambiamento personale in chi, per un periodo della sua vita, si è rinchiuso nelle dipendenze. La nostra fede nell’uomo, nella sua capacità di recupero, sta resistendo nonostante tutto: nonostante l’indifferenza, nonostante lo stigma che un “drogato” porta con sè, nonostante una società che da una parte sminuisce l’uso di sostanze per potenziare le prestazioni, dall’altra colpevolizza ed emargina nella categoria della cronicizzazione.
Se guardiamo con occhi attenti l’evoluzione che il fenomeno delle dipendenze patologiche ha avuto negli ultimi 40 anni, si evidenzia che è cessato in esso il livello di opposizione sociale e la trasgressione che incarnava negli anni 70, e che al rito collettivo del buco si è sostituito l’uso solitario delle sostanze e degli oggetti che potenziano la performance individuale.
Anche nelle dipendenze patologiche il Noi è stato sostituito dall’Io: questo è il paradigma della post-modernità. Non è necessario essere profeti per affermare che i vasi comunicano e i sistemi si contaminano: detto in altri termini, l’individualismo infiltra tutti i settori della nostra società, dall’alta finanza fino ai livelli più emarginati. Il dogma della post-modernità è che ci si fa da sé, che si vince soli, e solo per proprio merito personale, ma l’altra faccia della medaglia è che anche la sconfitta è determinata dalla incapacità personale, per cui chi non vince diventa uno scarto, uno scarto umano. La perdita del valore del senso di comunità ha il prezzo alto- altissimo di un enorme produzione di rifiuti umani.
Cambiano a volte le forme e i luoghi in cui si manifestano sofferenze ed emarginazione, ma non i volti delle ragazze e dei ragazzi, delle donne e degli uomini. Persone che hanno qualcosa in comune, al di là di ogni possibile differenza: il diritto di trovare dignità e futuro. Non possono farlo da soli, perché quel diritto per poter essere esercitato deve essere riconosciuto dagli altri, da tutti gli altri, da ciascuno nei confronti di ciascun altro.
Ogni situazione di disagio o di esclusione ha alle spalle un rifiuto, un mancato riconoscimento, una disattenzione, una privazione, una violenza. E se qualcuno è costretto ai margini, è l’intera comunità a risultarne impoverita. Se una parte della collettività fa fatica, la collettività nel suo complesso ne risente. Se una parte del corpo è malata, tutto l’organismo risulta colpito.
Solo avendo cura e rispetto di ogni parte, solo attraverso una cultura di reciprocità e di responsabilità possiamo aiutare il corpo intero a guarire, tutta la città a migliorare, ogni persona a rialzarsi e la ferita comune a ricucirsi. Ma se non si cammina insieme, il viaggio rischia di smarrire la direzione e perdere forse il senso. È per questo che siamo ancora qui. E noi siamo e vogliamo continuare ad esserci: compagni di strada, per imparare assieme a riconoscere i diritti e a chiamare per nome i tanti che sulla strada vivono e arrancano: volti dell’incertezza e dell’insicurezza, della paura e del bisogno, della solitudine e dello smarrimento, perché prima di ogni cosa, di ogni teorico valore, di ogni alto ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie: non i poveri generici, ma coloro che incontro; non i malati ma i volti segnati dal dolore di ciascuno di essi; non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi si incontra sul cammino. Non i programmi, ma i cammini condivisi.
Ci troviamo in un tempo di precariato dei diritti a livello mondiale. Esiste, infatti, un’idea di modernità che mal tollera i diritti sociali. La nostra società è frutto di un’economia moderna dove, spesso, anche la politica diventa servile ancella. Dove, sempre di più, si allarga il divario tra paesi poveri e paesi ricchi.
Siamo qui, perché non c’è alcun rifugio dove nasconderci da noi stessi.: dalla nostra fame e sete di verità, di trasparenza, di giustizia… non siamo qui a caso, siamo qui perché non siamo statue di sale, siamo qui perché lo vogliamo. Non è una passività l’essere qui, è una scelta, per ognuno diversa, ma che alla fine ci permette di coabitare in un mondo che ci piacerebbe “altro”.
In questo contesto la Federazione, forte delle esperienze dei suoi Centri, radicati sull’intero territorio nazionale, rappresenta le antenne dei bisogni, ma anche le avanguardie della sofferenza. E sono tantissimi i nostri gruppi che stanno lottando drammaticamente per la sopravvivenza. Una sopravvivenza che non riguarda solo i servizi, certamente importanti, ma la stessa idea di Progetto Uomo, con tutti i valori etici e morali che porta con sé. In tutta Italia continuiamo a batterci per i diritti di tutti, per un modello di welfare dove le politiche sociali e sanitarie debbono avere riguardo prima di tutto dei più fragili e dei più deboli.
In questi anni abbiamo lavorato contro lo stigma della tossicodipendenza per vizio, contro le sterili ideologie sui modelli di intervento, contro la sostanza posta al centro a scapito dell’uomo, contro i profeti della guarigione e gli arroganti della cronicità. Ma, in realtà, sono stati anni durante i quali abbiamo soprattutto lavorato “per”: per la dignità di ogni uomo; per la libertà, diritto inviolabile di ogni cittadino; per il riconoscimento pieno del principio di sussidiarietà; per il rispetto della vita umana intesa nella sua dimensione più completa, per riaffermare ogni giorno a noi stessi e agli altri che nessuno è irrecuperabile.
Del resto come è possibile nasconderci da noi stessi? Quello che ci ha catturato in tutti questi anni sono gli occhi e il cuore degli altri, quel volto dell’altro che da solo non ha senso se non in una relazione frontale con l’altro da sé. La relazione con l’altro non è solo atteggiamento etico, è direttamente cura, è cambiamento, è politica. E questo vale per tutti i volti del disagio.
Il roveto ardente non è solo lassù, sulla cima dell’Oreb: c’è un roveto ardente in ogni essere umano, in ogni periferia dell’esistenza, un roveto che arde e non si consuma, un roveto davanti al quale occorre davvero denudarsi i piedi, togliersi i sandali e ciò che essi simboleggiano: la rinuncia ad ogni forma di dominio e di supremazia.
L’altro è da conoscere nella sua storia, nei suoi percorsi, nelle sue fragilità che hanno provocato ferite e nelle sue speranze. Lo stile nuovo è proprio quell’avvicinarsi a lui con altri occhi, oltre la prima impressione o il primo contatto, con occhi “contemplativi” e con cuore sgombro o, come dice la beatitudine, con “viscere di madre”, “beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt5,7), sentendo e guardando l’altro con l’antenna della mia fragilità, della personale povertà di cui faccio quotidianamente esperienza.
Occorre che l’incontro sia uno spazio di libertà per poter diventare un momento di comunione, un incontro di cuore a cuore. Perché è nel cuore che si vive il mistero della comunione mediante il dono reciproco.
Questo è forse quanto di più prezioso, il nostro essere Comunità terapeutica e, allo stesso tempo, comunità cristiana, può donare, come icona, a tutta la Chiesa.
Colui che si presenta alle porte delle nostre comunità non è una cifra, una retta, un caso, una notizia, un piede sporco. È il volto di un figlio, di una figlia, che aspetta un bacio, un abbraccio, un’attenzione espressa con delicatezza, con una devozione simile a quella di Mosè nel togliersi i sandali e avvicinarsi all’Oreb.
Significa fare dell’incontro con i poveri, dell’attenzione, dell’accoglienza, della solidarietà, nel nome della speranza, la profezia autentica del Vangelo, perché i poveri non si contano, ma si abbracciano, e ci salvano.
Solo incontrando gli altri, nella povertà del nostro essere, il nostro cuore si può permettere quel palpito doloroso e gioioso che è l’immagine di Dio nell’altro. La mano dell’altro diventa simile a quella mano tesa della Cappella Sistina, forse l’immagine artisticamente più bella perché ci dice che solo un uomo nudo può incontrare Dio. E quindi, in questi anni, nel nostro cammino, le mani tese sono diventate altre, non più solo persone schiave dalle dipendenze, ma anche tante altre persone, a loro volta diventati scomodi scarti umani, che chiedono accoglienza, giustizia e dignità.
Sono convinto che, se vogliamo veramente interpretare la parola e l’azione di Gesù testimoniate nel Vangelo e se vogliamo essere alla sua sequela, dobbiamo smettere di predefinire, di pre-eleggere gli uomini e le donne verso i quali vogliamo andare. Sì, perché noi in qualche modo continuiamo a farci una domanda sbagliata: chi è il mio prossimo? Questa è la domanda sbagliata che nel vangelo secondo Luca risuona, rivolta a Gesù. E oggi, in parallelo, le domande sbagliate sono: Chi sono i poveri? Chi sono i bisognosi? Quali sono le periferie esistenziali?
Sappiamo bene che Gesù risponde a questa domanda capovolgendola in “chi si è fatto prossimo?”; perché il prossimo è colui che io decido di incontrare. Questa precisazione di Gesù è decisiva. Se uno si immette nella logica del ricercare chi è il prossimo, sbaglia, perché finirà per prestabilire chi vuole incontrare, finirà per decidere lui il bisogno del prossimo, mentre la necessità autentica è quella di farsi, di rendersi prossimo a chiunque si incontri, a ogni uomo o donna che ci passa accanto.
Il vero rischio della carità non comincia quando si mette in gioco la propria vita, ma quando si fa elemosina senza lasciarsi coinvolgere. Quando si offre solidarietà senza reciprocità, scegliendo le povertà meno scomode e selezionando i bisognosi secondo i propri bisogni. La carità non è una questione di scelta, perché non si possono scegliere le persone che bussano alle nostre porte. La compassione stessa, nel suo senso etimologico, non è un istinto, ma una conquista. La prossimità è una conquista che mette al centro il dolore dell’altro, non il mio sentire.
Ma dobbiamo vivere la prossimità anche con la consapevolezza che noi non abitiamo a Gerusalemme mentre gli altri abitano a Sodoma e Gomorra; che noi non siamo quelli che vanno nelle periferie esistenziali per “fare” la carità, ma perché le abitiamo in prima persona.
Povero e povertà non sono categorie solo sociologiche. In ognuno di noi è nascosta una zona di povertà dalla quale fuggiamo, ci nascondiamo e ci difendiamo. Nell’illusione che negare quella debolezza ci renda più forti. In realtà nessuno di noi è profondamente se stesso fino a quando non riesce ad abbracciare con libertà, delicatezza e affetto, la sua fragilità. In quell’incontro è nascosto il segreto della nostra autenticità. La parte “piegata” in noi ci ricorda che siamo chiamati ad alzarci per ritrovare primavera e speranza. Sempre. Per noi e per chi ci è accanto.
Quanto è vera e quotidiana questa affermazione nel nostro impegno nelle comunità terapeutiche! Non scegliamo e fortunatamente non possiamo scegliere, l’umanità che bussa alle nostre porte, i bisogni espressi o nascosti, le storie da incontrare.
Come Federazione, a fatica ma con tenacia, abbiamo mantenuto fede alle nostre radici, tenendo aperta la porta dell’incontro e della solidarietà. Come potevamo d’altronde, nasconderci a noi stessi e non sentire l’appello dei sempre più numerosi scarti che popolano le periferie umane: diciamocelo, in Italia ci sono intere fette di città che vivono al limite dell’umano. Il diritto alla cura non è uguale per tutti, il diritto allo studio non è uguale per tutti, il diritto di cittadinanza non è uguale per tutti, il diritto al lavoro…non classificato. Il dovere del prendersi cura…non è più un dovere! Noi che abbiamo scelto la trincea, conosciamo bene il prezzo della solitudine che questo comporta, della precarietà e dell’indifferenza con cui troppo spesso dobbiamo fare i conti.
Dove altro se non nei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio? Viviamo le periferie perché noi stessi siamo periferie. Come operatori sociali, in questi anni, ci siamo trovati, dall’oggi al domani, dall’essere mani che curano all’essere mani che chiedono. Lo so molto bene io che abito il sud. È un’epoca in cui il Welfare e tutto l’universo dei diritti che si erano affermati negli ultimi decenni è nuovamente rimesso in discussione, se non in termini di principio, sicuramente nella concretezza dei fatti. Lo stato, le istituzioni, la sanità pubblica non sono più in grado di dare risposte concrete alle povertà vecchie e nuove ed è ovvio che non si possa dare risposte neppure alle dipendenze patologiche. Le comunità che chiudono o che devono riconvertirsi ci riportano, di fatto, ad una realtà storica che credevamo superata e che richiede nuove risposte, nuovo impegno, nuove battaglie.
In nome della crisi, economica, globale, sociale, spietata, un pezzetto alla volta, grossi pezzi di sociale sono stati rosicchiati. A farne le spese, come sempre nella storia, sono stati i più deboli. E, tra questi, ci siamo anche noi e quelli che, come noi, offrono servizi alla persona. Quelli che, in nome di una vocazione all’umano, costruiscono e difendono diritti. Quelli che, negli anni, avevano pensato che questi diritti fossero ormai garantiti.
Questo lento, silenzioso e meticoloso attacco alle fondamenta dello stato sociale ci porta, oggi, alla fine di questa brutta storia: il Welfare è rimasto solo una casa vuota, non esiste più, è solo un orizzonte ideale di senso ma senza sostanza che lo riempia. Oggi il servizio alla persona non è più un diritto, ce lo diciamo senza vittimismo e senza rassegnazione ma con una buona dose di senso di realtà! È una sfida importante quella che ci aspetta, soprattutto in una società multietnica che, essendo schiava della paura, diventa ogni giorno più razzista o sempre più disillusa: non c’è niente da fare.
Allora siamo chiamati a captare le piccole speranze di tanta gente; a far risuonare alte le speranze anche brevi di questa epoca, dei tanti e tanti che continuano a bussare alle nostre porte, e dei tanti e tanti che vivono ai margini: i nostri centri dovrebbero essere l’eco, la cassa di risonanza delle speranze.
Cito le parole di Papa Francesco: “non bisogna cedere alla paura, al disincanto, allo scoraggiamento. È importante promuovere e curare una formazione qualificata che crei persone capaci di scendere nella notte senza essere invasi dal buio e perdersi; capaci di ascoltare l’illusione di tanti senza lasciarsi sedurre; capaci di toccare la disintegrazione altrui senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità”. E poi ancora: “farsi carico dei poveri nella consapevolezza che separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande. E abbassarsi senza nulla trattenere è la via per quella altezza che il Vangelo chiama carità e che la gioia più grande si gusta nella fraternità vissuta”.
Questa idea di fraternità vissuta mi rimanda al mio, al nostro vissuto di Comunità.
Comunità per me non significa solo una struttura sanitaria specialistica, non solo una struttura in cui curare patologie, ma una casa in cui fratelli accompagnano fratelli in una strada faticosa di cambiamento comune. Partendo proprio dalla filosofia di base delle nostre comunità, dall’impegno antropologico di Progetto Uomo, siamo stati in tutti questi anni e vogliamo continuare ad esserlo, il segno concreto di una fraternità che sceglie la relazione, la solidarietà, la giustizia, l’amicizia e la liberazione. Nelle nostre comunità, i “rifiuti umani” che bussano sono ricondotti all’interno di una relazione in cui lo specchiarsi e il rispecchiarsi ricostruisca faticosamente l’identità attraverso il Noi e dona anche a noi operatori la possibilità di sentirci parte di un tutto.
Parte di un tutto. Come ciascuno di noi nella comunità, allo stesso modo le comunità nella federazione. Un tutto che ci salvi dall’emarginazione, dall’isolamento, dal perderci ciascuno nelle proprie ansie e nelle proprie paure, nella propria individualità. Come in un battito cardiaco, ritmico e vitale, i nostri centri sono la periferia in cui il nostro sangue, nel movimento della sistole, scorre a spendere ossigeno; e allo stesso modo mi piace pensare alla federazione come la diastole, il movimento e il luogo in cui il nostro sangue scarico e stanco, ritorna al cuore, al centro, per ricaricarsi di ossigeno e vita, il luogo dove trovare uno spazio di pensiero, di condivisione e di relazione che dia sostegno e rigenerazione, in cui è possibile, insieme, alzare lo sguardo per guardare meglio noi stessi e, quindi, guardare oltre e andare oltre.
Cito don Tonino Bello: “l’avvenire ha i piedi scalzi”. Voleva dire che il futuro lo costruiscono i poveri.
La Chiesa, a cui papa Francesco ha dato il nuovo impulso della strada, dell’incontro con l’altro, “la Chiesa in uscita”, ci trova già formati in questo compito, ma bisognosi sempre di essere incoraggiati, valorizzati, sostenuti e accompagnati. Non novità nei progetti terapeutici, ma riaffermazione puntuale, quotidiana, faticosa, della centralità della persona. Arricchiti, non solo da conoscenze scientifiche, ma soprattutto di esperienze sul campo e dalle mani tese che si sono sporcate del fango in cui l’altro è caduto.
Il rinnovamento passa attraverso un’immersione nel mondo, un contatto diretto con le ingiustizie, le discriminazioni, le violenze che schiacciano la vita di milioni di persone. La speranza non la si costruisce se non si conosce il volto della disperazione. Sono i poveri a indicarci la strada del domani.
C’è bisogno, come sempre, di una prospettiva, di guardare la bussola e ritrovare la direzione. Non si osservano i problemi che ci incollano al suolo senza alzare gli occhi per cercare una strada e una speranza. Oggi allora quali possono essere le risposte, antiche eppure moderne, essenziali, che vanno al cuore della nostra identità, alle radici del nostro esistere ed operare ma che guardano con serenità al domani?
La prima, la più importante, la proposta forte, come è chiaro, è la centralità educativa.
È tempo di rimettere, con forza, al centro del nostro operare il senso profondo dell’agire educativo, la passione per l’altro, la sacralità della libertà, la convinzione che non ci si educa se non insieme. Su queste basi possiamo costruire percorsi coerenti e privi di contraddizioni insanabili.
E allora: Chi siamo? Cosa facciamo? Perché lo facciamo? Sono le nostre domande. È il nucleo di risposte intorno a cui costruire il nostro presente ed il nostro domani. È l’unica strada autentica!
Chi siamo? Siamo donne e uomini, cultori dell’educazione e della libertà legata alla responsabilità, legame che dona coerenza al nostro agire.
Cosa facciamo? Costruiamo, insieme ad altre donne e uomini che ce lo chiedono, percorsi di liberazione condivisa, di rieducazione, di cittadinanza, di giustizia, di solidarietà, di reciprocità.
Accompagniamo, ma non ci sostituiamo; ci prendiamo cura, ma non assistiamo; accogliamo l’altro aspettando pazientemente, ma senza nulla pretendere.
Perché lo facciamo? Perché abbiamo nel nostro DNA l’inquietudine, la tensione verso la giustizia sociale, perché siamo convinti che le dipendenze e ogni altra forma di emarginazione limitino la dignità e la libertà dell’uomo, dell’umanità. Perché non c’è cosa più grande che chinarsi perché un altro, abbracciandoci, possa rialzarsi e camminare sulle proprie gambe. È dare sempre speranza, perché nessuno resti un passo indietro rispetto al nostro. Perché crediamo nella forza educativa dell’amore!
È questo il senso della nostra appartenenza, di quest’altra parola magica utilizzata troppo spesso a sproposito. È a questo che apparteniamo ed è questo ciò che ci appartiene. Non le nostre singole comunità, non la nostra organizzazione … è l’impegno comune verso l’altro. A questo apparteniamo. Dove appartenere non vuol dire essere proprietà, ma scegliere in libertà, crederci, volere. “I care”, mi appartiene!
È questa che è e vuole essere la nostra appartenenza.