Talvolta l’onda burocratico-amministrativa spazza via prassi consolidate che vedono pazienti psichiatrici o afflitti da altri disagi perdere persone di riferimento, in genere Educatori con i quali hanno stretto significative relazioni, perché il funzionario /dirigente di turno confonde la Sanità con la pulizia delle strade e apre bandi … naturalmente al ribasso e, comunque, estranei ad ogni considerazione di “cura”.

Quando a decidere le sorti delle persone e delle strutture sono le gare d’appalto

Il prendersi cura, invero, esige sia atteggiamenti professionali, sia un’attenzione particolare alla persona, anche in proporzione al disagio che manifesta, non solo da chi la esercita ma anche, se non soprattutto, da chi ne possiede alte responsabilità organizzative e gestionali; invece, gli alti livelli mostrano, in alcune circostanze, incompetenza o inconsapevolezza verso il “mandato umano”.

A mio parere la grande intuizione di Basaglia non fu tanto l’abolizione del manicomio, in quanto istituzione totale, bensì il mettere la persona al primo posto nel trattamento.

Il processo di riforma, conseguente appunto alla legge Basaglia, ha portato tra l’altro alla nascita di forme diversificate di accoglienza, sostegno, cura del paziente psichiatrico, che mirano non tanto a sanare il sintomo, quanto a restituire alla persona margini di dignità e libertà all’interno dei limiti posti dal malessere. Sappiamo bene infatti, che in tanti casi il farmaco cura, seda e compensa ma non guarisce laddove il ruolo centrale del trattamento va attribuito alla relazione terapeutica.

In tal senso sono necessari professionisti preparati e avvezzi alla relazione, tra i quali gli Educatori professionali/sociali, capaci anche di lavorare con l’équipe multidisciplinare del Csm (Centro Salute Mentale), superando il diffuso pregiudizio che porta ad attribuire maggiore importanza all’intervento medico e farmacologico e assimila gli Educatori Sociali a badanti non idonee al prendersi cura.

La relazione terapeutico/rieducativa, ricca di empatia e di premurosa autorevolezza, instaura un legame particolare con l’utente; attraverso essa, il soggetto sperimenta uno stile di vita che gli permette di convivere con il proprio stato e gli dona un’appartenenza anche sociale e affettiva.  Le case alloggio e le comunità, laddove dirette e animate con professionalità, si presentano come ambienti idonei alla cura, se permettono l’instaurarsi di relazioni, umanizzano la cura e ridanno protagonismo all’ospite, togliendolo dal ruolo passivo di paziente.

Inoltre, in seno a questi ambienti e grazie a queste relazioni si creano anche legami affettivi, di diversa pregnanza all’interno del gruppo degli ospiti e tra essi e gli educatori, che se ben gestiti, fungono da rinforzo positivo a favore degli obiettivi che l’équipe persegue. Di conseguenza una sana ed efficace progettazione deve proteggere la persona, il clima dell’ambiente e la relazione, per non compromettere il lavoro quotidiano che esige costanza e continuità.

È chiaro che stiamo parlando di criteri che non rispondono ad indici economici o di mera gestione delle strutture, soprattutto se, come accade in tanta sanità italiana, i livelli di cura sono dettati da istanze di budget più che dalle istanze delle persone.

È sconfortante talvolta notare come decisioni programmatiche che investono la salute e il futuro delle persone, soprattutto di quelle più fragili, siano in mano a burocrati “esperti” di gestione e non di umanità. Lo iato tra cura e riabilitazione molte volte si espande proprio per i criteri gestionali e amministrativi che sopravanzano quelli terapeutici, per cui persone e strutture vengono assimilate e mercificate come se si trattasse di lotti da posizionare, meglio se al ribasso, stante criteri mercenari.

L’ipocrisia e i tradimenti nei riguardi della legge Basaglia, fin dal suo nascere, trovano terreno fertile proprio in questi stili amministrativi; spezzare una relazione terapeutica che si è instaurata con paziente cautela e impiego di energie, soprattutto umane, nel corso del tempo vuol dire tradire la fiducia degli utenti e vanificare i livelli raggiunti. In tal modo colui che si presenta come acuto amministratore o manager non fa altro che sprecare risorse e opportunità pur dimostrando che al momento sta risparmiando.

I processi di cura soprattutto in particolari situazioni con specifiche patologie, sono lunghi (infatti si parla di cronicità) e quindi la presa in carico non può essere da meno, proprio perché si parla di relazione non di trattamenti miracolistici. Cronicità che andrà peggiorando, condizionando anche i più minimi cambiamenti, laddove verrà sottoposta a processi asincroni, cioè dettati dal continuo mutare dell’équipe trattamentale, che di conseguenza muterà anche il clima, deteriorando o rompendo la relazione fiduciaria di affidamento che l’ospite era stato in grado di costruire, tornando così a un freddo rapporto operatore/utente, struttura/ospite.

L’antico trattamento manicomiale era tale, non tanto e non solo per la forzata contenzione delle strutture, ma piuttosto per la deliberata mancanza di relazione umana fra gli operatori del settore e gli internati, che spersonalizzava e assimilava l’ospite al sintomo, decretando l’alienazione totale e quindi il fallimento della cura stessa in senso globale, ridotta a mera, se non sadica, contenzione.

Non illudiamoci che oggi la mentalità manicomiale sia terminata se si pensa di perseguire criteri di cura nuovi ed efficaci solo perché al posto dell’edificio manicomiale ci sono delle case alloggio e cambia l’équipe trattamentale.

Se poi in pratica la persona torna ad essere un utente lottizzato secondo criteri economici, il cui destino è legato a gare d’appalto, ci troviamo “a ritorni di fiamma” precedenti agli intenti della legge Basaglia e alle belle intenzioni tanto sbandierate da politici e amministratori.

Il lavoro di cura è faticoso, richiede molte energie sia personali che organizzative; soprattutto nell’ambito socio-sanitario è una continua sfida alla fragilità. Ha bisogno quindi di rinforzi e riconoscimenti.

Il primo riconoscimento viene dentro le mura del gruppo appartamento; il secondo deve avvenire dalle strutture che gestiscono e garantiscono la vita di questi nuclei; il terzo dalla società stessa.

Senza riconoscimento, utenti e operatori si trovano soli e isolati; la frustrazione è inevitabile e può preludere al fallimento.

La prima e principale responsabilità del prendersi cura non è verso i consigli di amministrazione o i budget degli organi istituzionali ma verso le persone, in primis gli ospiti.

Criteri questi che ben sappiamo, utopistici, quasi sovente elusi se non derisi, ma necessari da riaffermare, per salvaguardare la qualità degli interventi, elemento essenziale di riduzione a lungo termine del danno e della spesa.

Strategie diverse che si palesano più scaltre provocano, invece, a medio e lungo termine ricadute, con gravi conseguenze sociali.

Prof. Nicolò Pisanu

Preside Istituto Superiore Universitario “Progetto Uomo”