Perché un’organizzazione del Terzo Settore, per quanta storia possa avere e per quanto nel tempo possa essersi strutturata attraverso specifiche professionalità in equipe di lavoro in alcuni casi anche altamente specializzate, dovrebbe ancora oggi sentire la necessità di fermarsi per consentire un confronto ed un approfondimento sul “senso” del proprio agire?

Cosa motiva la scelta di un percorso formativo che sia capace di coniugare i pur necessari aggiornamenti tecnici e professionali, con una riflessione sui valori identitari e sul senso di appartenenza di operatori e volontari all’organizzazione?

La risposta a queste domande è tutt’altro che banale.

Il sistema di produzione fondato sugli elementi costitutivi della rivoluzione industriale dell’inizio del secolo scorso ha di fatto permeato di sé l’intero modello di sviluppo dei mercati occidentali.

In particolare in Italia il cosiddetto “fordismo” basato sul concetto di “catena di montaggio” ha indotto per anni i manager e gli esperti di organizzazione del lavoro, a ritenere che un meccanismo ben oliato, nel quale ogni ingranaggio fosse fortemente specializzato nella realizzazione della propria parte, del proprio “pezzo”, senza alcuna “consapevolezza” del prodotto finito, rendesse i processi di produzione più efficienti, velocizzando i meccanismi e garantendo standard elevati.

In altre parole non era importante che gli operai acquisissero consapevolezza generale delle finalità aziendali, anzi in alcuni casi era persino dannoso. Un’adeguata conoscenza delle proprie specifiche mansioni garantiva velocità e raggiungimento degli obiettivi. E ciò era più che sufficiente.

Dobbiamo alla rivoluzione tecnologica prima, e digitale dopo, il ripensamento generale sui sistemi di produzione, e quindi anche dell’organizzazione del lavoro che ad essa è sottesa.

Negli ultimi 15 anni, dapprima le grandi aziende, e quindi sull’onda lunga l’intero mondo industriale, hanno iniziato ad approfondire concetti fino ad allora sconosciuti, quali motivazione, senso di appartenenza, percezione di sé all’interno di un disegno generale. Sull’assunto che la motivazione è elemento fondamentale nella capacità lavorativa di qualsiasi persona, sono state avviate sperimentazioni, oggi prassi ormai consolidate, tese a sviluppare nel personale dipendente maggiore senso di appartenenza all’azienda, partendo proprio dal tentativo di conferire “senso compiuto” al lavoro di ognuno.

Nel mondo del Terzo Settore e dell’Associazionismo, in parallelo, abbiamo invece assistito ad un processo inverso.

Le organizzazioni no profit, originate in larga parte dal volontariato cattolico e laico e dalla mutualità delle corporazioni, si sono sviluppate proprio grazie alla loro grande capacità di coagulare intorno ad una idea, o ad un credo, operatori che ricercavano nell’agire del proprio ente una ragione di vita, prima ancora che lavorativa. A ciò si deve, almeno in parte, l’enorme sviluppo che dagli anni ’80, incentrati su un pioneristico ed improvvisato “volontarismo”, ha portato il Terzo Settore a diventare una delle realtà produttive più importanti in Italia, con organizzazioni capaci di muovere ingenti capitali e fatturati.

Ma proprio a causa del repentino e certamente inaspettato sviluppo, il Terzo Settore ha gradualmente ridotto la sua principale forza propulsiva: la grande motivazione dei propri operatori.

L’aumento della produttività, in particolare nel campo dei servizi, ha infatti determinato un sempre maggiore scollamento tra la dirigenza e la base delle organizzazioni, lì dove la condivisione degli obiettivi e la partecipazione associativa erano invece tra i principali elementi di forza del Terzo Settore.

Uno scollamento che ha portato rapidamente gli operatori, in particolare nelle realtà medio/grandi, ad invertire la percezione di sé all’interno dell’organizzazione, passando da protagonisti che condividevano e partecipavano alle scelte, a lavoratori dipendenti di un ente datoriale sempre più distante. L’insorgere delle prime difficoltà economiche che, inevitabilmente, con l’aumento delle attività, per oltre il 70% su mono committenza pubblica, hanno permeato di sé le fragili economie degli enti del Terzo Settore, ha ulteriormente acuito le distanze, determinando in molti casi vere e proprie proteste sindacali nei confronti delle componenti dirigenziali. L’iscrizione di molti operatori del Terzo Settore ai sindacati e la definizione delle rappresentanze aziendali ha infine sancito il definitivo passaggio ad una organizzazione del lavoro tradizionale con poche reminiscenze di quelle forme altamente partecipative che l’avevano originate.

Ed ecco quindi che mentre il mondo del mercato e della produzione ha da tempo compreso e fatta propria la necessità di fornire ai propri lavoratori un orizzonte di senso nel quale ritrovarsi, il mondo del Terzo Settore sembra averlo ormai smarrito.

E vanno certamente inquadrati nella medesima casella i processi di “istituzionalizzazione” delle organizzazioni, in particolare di quelle storiche, ed il ripiegamento su posizioni tese all’autoriproduzione che hanno nel tempo fatto smarrire molta di quella capacità anticipatoria e profetica che era connotato distintivo del Terzo Settore.

Da qui la risposta alle domande iniziali.

Oggi è strategia fondamentale recuperare il senso profondo di ciò che le organizzazioni fanno, inteso non solo nella rilettura della propria storia e dei valori di riferimento, ma anche degli elementi di appartenenza che rendono queste forme di economia sociale un unicum nel mondo produttivo ed imprenditoriale.

Tanto più forte sarà il senso di appartenenza di operatori, volontari e quadri dirigenti, tanto maggiore sarà la solidità ed il radicamento sul territorio dell’organizzazione e quindi la capacità di giocare un ruolo politico teso all’attivazione di processi di cambiamento comunitari.

Del resto diverse grandi organizzazioni si stanno muovendo in questa direzione, e tantissime sono le sperimentazioni che dal nord al sud del paese si stanno sviluppando.

Ciò evidentemente non significa che la formazione tecnica e specifica non abbia più valore. Al contrario, ma la stessa deve essere necessariamente integrata con percorsi, quanto più possibile esperienziali e condivisi, capaci di fare interrogare gli operatori sul significato profondo dell’agire dell’organizzazione.

L’appartenenza si “forma” attraverso un cammino permanente, che abbia il coraggio anche di mettere in discussione risultati ed obiettivi.

di Luciano Squillaci – Presidente FICT