La lettura della petizione ”Via la bocciatura dalla scuola primaria!” mi ha rimandato l’immagine del “Bambino martire”, magistralmente descritta in un agile saggio di Vittorio Luigi Castellazzi [1], che approfondisce lo stato attuale dell’infanzia, contrassegnata da bambini costretti a crescere in funzione delle esigenze degli adulti e, aggiungo nel nostro caso, delle incapacità e lacune educative degli stessi, in sintonia con l’evitare al pargolo ogni frustrazione che possa nuocere allo statu quo familiare.

Di primo acchito ho avvertito un iniziale stupore, provocato dal fatto che è risaputo quanto le bocciature, non solo nella primaria, ma in tutta la scuola dell’obbligo, risultino operazioni poco praticate, soprattutto da quando l’incipit aziendale suggerisce ai docenti di rendersi appetibili per non perdere allievi, costringendoli in questo modo a sentirsi ostaggio dei genitori, oggi facili querulomani.

Avendo poi insegnato in quegli ordini di scuole, so bene come la bocciatura sia l’ultima spiaggia di un processo dovuta a vari fattori, personali e ambientali, che ineriscono lo studente, non ultimi il grado di maturità e capacità di affrontare una classe di studio successiva. Dinamiche che, comunque, non si scatenano improvvisamente né cadono come mannaia sul malcapitato Lucignolo e sulla sua famiglia; in ogni caso tale decisione è condivisa con i familiari.

Mi è apparsa quindi l’immagine, piuttosto diffusa nel panorama educativo odierno, del “bambino martire” che deve essere, a priori, salvato da ogni frustrazione che può affliggerlo, magari citando fuori contesto don Lorenzo Milani e, secondo consuetudine, riversando ogni responsabilità sulla scuola, implicitamente tacciata di razzismo e classismo, a sfavore di categorie “fragili”.

Che poi, soprattutto la formazione dei docenti e l’insegnamento, si possano e debbano organizzare con aggiustamenti di rotta, dettati dal repentino mutare della scena sociale e culturale, è un dato di fatto ma senza offrire un’ulteriore possibilità di delega educativa ad uno stuolo di genitori ricchi di pretese e poveri di autorevolezza.

Sempre nella stessa Petizione si chiede, inoltre, la “bocciatura dei voti in decimi” che, pare, demolisca l’autostima.

Effettivamente noto che oggi i bambini (ma anche gli studenti universitari) presentano in molti casi insicurezza e bassa autostima e, ad un’analisi più attenta e meno di parte, la causa non è da ascrivere al quattro in matematica, che può essere sostituito, senza giovare all’autostima, dal “gravemente insufficiente” o da un’enigmatica “A” o da un generico “impreparato”.

Il voto o il giudizio sono meri strumenti, efficaci se universalmente leggibili e il più possibile oggettivi, che accompagneranno lo studente fino al Dottorato di ricerca, se mai, povero bimbo, ci arriverà!

All’esame di terza media conquistai un Ottimo e un Distinto e chiesi a cosa corrispondessero; quando insegnavo, non ho mai riscontrato nei genitori e negli allievi della secondaria di primo grado apprezzamenti per la mancanza dei voti in decimali e l’adozione dei giudizi, mentre noi docenti dovevamo arrabattarci su castelli di parole, riportati su schede in duplice copia, mentre un voto accompagnato da un sano colloquio con l’insegnante, avrebbe da subito chiarito un giudizio negativo e prolisso, il quale  comunque, non sarebbe risultato più gradevole di un’insufficienza in decimi.

Ma uno scarno esame di realtà pare oggi nuocere ai fanciulli così da esporli ad un narcisismo che non porterà a nulla.

Invece, l’evitare frustrazioni e camuffare i limiti vengono spacciati come agevolanti dell’autostima ed è probabilmente anche per questo che numerosi studenti si perdono nei meandri universitari, perenni “fuori corso”, afflitti da insicurezza e pigrizia, incoraggiati dalla cultura dell’evitamento del confronto, prima di tutto con sé stessi.

L’autostima nasce e si coltiva dal concepimento in poi, attraverso i “voti” che il soggetto impara ad attribuirsi, grazie a quanto la relazione educativa si è resa palestra di esperienza allenandolo a raggiungere congruenza tra la valutazione personale e il valore che altri gli assegnano, nella dialettica fra ideale e reale.

Così può nascere la capacità di autovalutarsi, senza demonizzare parole come “verifica” o “valutazione” che se oggi fanno paura non è per ciò che rappresentano ma per le valenze morali loro attribuite al fine di enfatizzare la competizione invece di riconoscere impegno e merito.

Mi chiedo, in definitiva, anche se il discorso meriterebbe ampi approfondimenti, quando la smetteremo di spostare la prova del limite, che è anche misura del reale.

di Nicolò A. Pisanu

1. Vittorio Luigi Castellazzi, Bambino re-bambino martire. La violenza in età adolescenziale e giovanile, Collana LE API, Ed. IPU, Vitorchiano, 2011.