La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, divenuta vincolante con il Trattato di Lisbona nel 2009 e di cui troppo spesso ci dimentichiamo, apre così “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.”.

Ma già la nostra Costituzione, ben più antica e profetica, all’art.3, nell’enunciare il principio di uguaglianza formale, ribadisce “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale…”

Il termine dignità, quindi, che torna prepotentemente e viene indicato quale principio irrinunciabile per il convivere civile.

Ma se così è, e nessun governo di qualsiasi estrazione politica negherà mai tale evidenza, la questione si pone in termini di interpretazione del significato più profondo di quella parola, dignità, oggi tanto sbandierata eppure al contempo offesa e tradita.

Definire la dignità è, a dire il vero, compito assai arduo, considerando tra l’altro i significati consumistici e relativisti che ultimamente la stanno relegando ad una mera unità di misura, quantificabile con il minimo indispensabile per sopravvivere.

Come giudicare altrimenti gli interventi normativi che, nel tentativo più o meno reale, di rispondere all’aumento esponenziale delle situazioni di povertà in Italia, hanno inteso restituire il paese ad una politica assistenziale di sussidi, peraltro anche di scarso valore economico.

E non è necessario fare riferimento al mai troppo criticato “reddito di cittadinanza”, basti andare indietro di qualche anno, e di qualche governo, per rammentare gli effetti sostanzialmente nulli, ed in alcuni casi dannosi, dell’allora sperimentale “social card” o più recentemente del SIA o del REI.

E’ evidente insomma come non possa ritenersi sufficiente, oggi, affrontare un tema complesso e multifattoriale come la povertà, intendendola semplicemente come assenza di mezzi di sussistenza.

Un ragionamento siffato, non solo è inconsistente nei presupposti e nei possibili risultati, ma rappresenta un vero e proprio tradimento degli stessi principi costituzionali che, chi lo predica, ostenta senza ritegno.

Oggi probabilmente non è possibile neanche più parlare al singolare di povertà, ma sembra più utile e corretto parlare di più povertà, che afferiscono a molteplici sfere della vita di ogni uomo, dalla libertà ai mezzi di sussistenza, dalle opportunità formative alla salute, dal lavoro alla cultura.

Tutti elementi che concorrono, in eguale misura, a formare quella che definiamo, appunto, dignità umana.

Ed occorre anche differenziare territorialmente: la povertà a Milano non è la stessa che a Napoli, così come a Bologna non è uguale a Reggio Calabria. Non si possono estrapolare dal contesto culturale, ambientale ed anche geografico, i significati di un fenomeno così strettamente legato alla persona, alle sue opportunità ed alla sua rete relazionale. Fare parti uguali tra diseguali non è giustizia, per usare le parole di Don Milani.

Ecco perché la politica del mero sussidio non ha alcun significato, anzi per alcuni versi è dannosa proprio perché pone in discussione il significato più profondo della dignità di ogni individuo.

Può dirsi infatti “dignitoso” un assegno mensile di qualche centinaio di euro, che non tenga in conto che il lavoro rappresenta per ogni persona un elemento imprescindibile per la propria realizzazione umana e sociale?

O può contribuire a restituire dignità un sussidio conferito a chi non ha accesso ai più elementari diritti di cittadinanza: welfare, scuola e sanità?

La Calabria, terra dalle mille contraddizioni, rappresenta probabilmente, sotto questo profilo, un esempio emblematico nel panorama nazionale.

I dati ci dicono che i calabresi hanno il reddito più basso di tutto il resto d’Italia.

Le sacche di povertà in questa regione sono diverse e diffuse su tutto il territorio, con particolare incidenza in quelle che vengono definite aree interne.

Ora: è possibile garantire il superamento di questo gap intervenendo semplicemente in termini assistenzialistici?

La storia ci insegna come risposte similari, fondate esclusivamente su criteri economicisti o finanziamenti a pioggia, siano perfino dannose, andando ad incidere ulteriormente sulla forbice tra poveri e ricchi ed ingrassando la ‘ndrangheta, che notoriamente accentua il proprio predominio territoriale offrendo risposte in termini di pseudo-dignità, lavoro e riconoscimento sociale, profittando proprio dell’assenza dello Stato.

Ecco perché il tema va affrontato secondo logiche di sistema. Essere fedeli al dettato costituzionale, e garantire quindi la dignità di ogni individuo, significa costruire un sistema capace di garantire i diritti fondamentali, quali welfare, sanità e lavoro, ma anche opportunità relazionali e culturali. Significa tornare ad investire nell’educazione e nella scuola, ripartendo dai giovani. Significa, per il meridione d’Italia, offrire ai propri ragazzi, non un’opportunità per andarsene, ma un motivo per cui valga la pena restare.

In Calabria stiamo aspettando da quasi 20 anni l’attuazione della legge 328, per ridisegnare un sistema di welfare vecchio e fortemente deficitario, così come attendiamo ormai da quasi un decennio la restituzione ad una sanità che sia realmente al servizio dei cittadini, ed in particolare dei più deboli. Questi sono gli interventi capaci di restituire dignità ad un intero popolo che auspichiamo dai nostri governanti.

di Luciano Squillaci – Presidente FICT