L’avvocato Marco Cafiero ha partecipato in rappresentanza della Fict quale componente del Gruppo di lavoro persone private della libertà personale del Forum del Terzo Settore all’evento organizzato dal CNEL intitolato “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere” , tenutosi a Roma, il 16 aprile 2024.

Mi soffermo ancora una volta sulla Giustizia Riparativa, anche a costo di annoiare il lettore, tuttavia le resistenze fortissime che caratterizzano questo nostro periodo, a dispetto del dettato normativo ormai indiscutibile, mi portano ad avvertire la necessità di puntualizzare con la speranza di modificare il contesto culturale in cui verrà amministrata la Giustizia, e di cui io sono parte.
La necessità di puntualizzare è ispirata dalla lettura del Prof. Luciano Eusebi (Rieducazione e prospettive di riforma del sistema penitenziario penale dopo il D:L:G:S n. 150/2022 – in Sistema Penale) le cui riflessioni da anni mi confortano facendomi pensare che ciò che per molti è utopistico, in realtà è possibile.
Gli strumenti di gestione non penalistica dei reati devono assumere una forma credibile e tale da consentire alla Comunità di ritenere il carcere come ultima spiaggia.
La Giustizia riparativa deve avvalersi della forza seducente di compensare il reato: in particolare deve portare la Comunità a valutare la pena tradizionale come inidonea a cancellare l’azione e tantomeno a prevenirne ulteriori. La retribuzione risponde ai bisogni emotivi nei confronti dell’autore che, comunque, si placano solo nell’immediatezza dell’irrogazione della sentenza di condanna, per poi riemergere con frequenza.
Secondo Luciano Eusebi attestarsi esclusivamente sulla retribuzione denota debolezza da parte dello Stato che si rivela incapace di agire sulla prevenzione primaria della criminalità. La strategia preventiva, in omaggio al dettato costituzionale, agisce sulla motivazione piuttosto che sulla coercizione
La Giustizia riparativa si pone a fianco di quella retributiva costruendo un modello integrato in grado da rispondere a tutti i bisogni della Comunità, non solo a quelli emotivi fondati sulla ristorazione delle ferite attraverso un semplice palliativo.
L’esimio cattedratico pensa che ”Il soggetto rieducato, diversamente da quello neutralizzato, contribuisce, dunque, a chiudere, sul territorio, spazi percorribili in senso criminoso o, se si vuole, a chiudere posti di lavoro criminale”. Le organizzazioni criminali, in questo modo, perdono forza per il distacco dei propri adepti; essi infatti , qualora esclusivamente sanzionati, diventano una risorsa all’interno degli istituti penitenziari, una sponda di omertà e fedeltà che l’educazione, invece, debellerebbe.
Il soggetto prende le distanze e riprogramma la propria esistenza al di fuori dei circuiti criminali in cui continuerebbe a restare sia durante la detenzione che una volta dimesso.
Ho sempre pensato che il termine “rieducazione” evochi sistemi di manipolazione della personalità, come conferma Eusebi, per questo penso che la persona debba raggiungere un livello di autonomia personale anche rispetto alle sollecitazioni criminali che rappresentano la via più breve per la realizzazione di risultati economici diversamente più impegnativi da conseguire
Il concetto di “via più breve”, frutto di una mia recente riflessione, attiene essenzialmente a tutte quelle scorciatoie che il reo affronta per realizzare un profitto superiore a quello offerto dalle opportunità dii lavoro (scarse).
La necessità di tendere ad un benessere consumistico elevato impone la ricerca di percorsi illeciti che non tengono in alcun conto le eventuali vittime. Siamo in una società in cui si parla di accettazione ma “l’altro” non esiste. Non è sicuramente un problema di questi tempi – è così da sempre – ma l’attuale società esaspera questa dimensione a dispetto di tanti proclami demagogici.
Allora mi piace parlare di educazione, un concetto che riteniamo appannaggio della realtà istituzionalmente formativa ma che deve coinvolgere la comunità nella sua interezza. Una Comunità che non può permettersi di fare sconti a livello educativo e che non è delegabile al sistema scolastico fortemente in crisi perché impregnato di burocrazia tanto da rendere l’insegnante un soggetto alle prese con sistemi informatici sempre più sofisticati e impegnativi nonché con genitori sempre più esigenti ed iracondi.
La Comunità ha il compito di mettere il soggetto di fronte alle sue responsabilità senza scivolare nel buonismo; nello stesso tempo è tenuta a costruire percorsi attraverso i quali il soggetto abbia l’opportunità di consapevolizzare quanto agito e prenderne le distanze, riconoscendo l’esistenza di soggetti portatori dei diritti che ha pensato di violare.
Il sistema educativo non va ad inficiare quello giudiziario per cui la Magistratura non deve temere un’invasione di campo: rappresenta un modo in cui la Comunità si rende partecipe di un processo di rielaborazione che porta a quello spostamento – di cui amo parlare – di matrice culturale ma anche di comportamento. Si tratta dell’offerta di una modalità più articolata ma anche più sicura di conseguire risultati senza violare le norme di convivenza.
Prescindendo dal percorso riparativo attuabile in fase di accertamento del reato occorre non dimenticare i soggetti che già sono stati raggiunti dalla sentenza di condanna passata in giudicato. Coloro i quali non hanno potuto usufruire di una misura alternativa si trovano a dover fare i conti con l’universo penitenziario che oggi è al centro dell’attenzione pubblica e politica.
Il considerevole aumento dei suicidi in carcere, l’annoso problema del sovraffollamento che oggi sembra raggiungere livelli ben oltre la soglia di tolleranza inducono a riflettere proprio su quei percorsi di cui abbiamo trattato.
Ed anche in questo caso sottolineo quanto esprime Luciano Eusebi nel suo articolo “Nondimeno, mancano totalmente da tempo, nella stessa dottrina penalistica studi specifici dedicati alla rieducazione inframuraria, lasciando l’impressione che intere categorie di reclusi debbano ritenersi a priori refrattarie rispetto a qualsiasi percorso rieducativo”
Nel corso del grande evento organizzato dal CNEL in data 16 aprile 2024 intitolato “Recidiva Zero. Studio Formazione e Lavoro in Carcere” abbiamo assistito ad un confronto serrato sulle proposte normative volte a coniugare la sicurezza in carcere e il trattamento del detenuto, sia attraverso il riconoscimento e il rispetto delle regole sociali, sia attraverso il lavoro che educa il detenuto alla responsabilità, come afferma il Presidente del Consiglio intervenuto.
Sono termini che rimbalzano da tempo in tutti i discorsi politici e sociali che si affollano nelle sedi congressuali ma che, difficilmente trovano spazio se non in virtù di progettualità effimere in occasione di cospicui finanziamenti. Pare, infatti, che un grosso stanziamento verrà disposto a favore delle iniziative volte a creare competenze durante il periodo della detenzione, spendibili all’esterno per abbassare il tasso di recidiva.
Ma ciò che mi ha colpito, nel corso del simposio, è quanto da tempo io sostengo: viviamo in una società fatta di povertà educativa, perché come dice Mons Pagniello Presidente della Caritas Italiana, la storia dei detenuti nasce dalla povertà economica, culturale ed educativa. Auspica, a gran voce, che il detenuto venga accompagnato in questo percorso: mi pare di capire che il lavoro di per sé non è sufficiente, occorre, e lo ribadisco a costo di essere ridondante, una fase educativa che consenta al detenuto di scegliere la via più sicura piuttosto che quella più breve.
Con riferimento al concetto di riparazione, dunque, è convincente quanto sostenuto in sede congressuale dal Prof. Paolo Sommaggio, dell’Università di Padova, che identifica nel lavoro una risorsa riparativa. Mi piace pensare che il concetto di riparazione non sia legato esclusivamente alla frattura sociale determinata, ma anche a quella che il reo ha provocato in sé stesso, leggibile nella sua storia personale fatta proprio di povertà educativa. Ancora più convincente mi appare il concetto di bifasicità della riparazione: se l’incontro con la vittima anche allargata rappresenta un modo di guardare al passato, il lavoro rappresenta l’opportunità di guardare al futuro. Nessuna delle due fasi deve andare a discapito dell’altra ma insieme rappresentare l’obiettivo principale della Giustizia di Comunità.
Infine, con riferimento al dipendente da sostanze, figura a cui ho dedicato quarant’anni della mia vita sociale e professionale, ritengo che il lavoro sia una fondamentale risorsa per quel soggetto che con fatica affronta un percorso di recupero, lungo ed articolato. Se al termine di questo percorso non lo attende uno sbocco produttivo sarà giocoforza assistere ad un recidivarsi sia della dipendenza che dell’illiceità.

di avv. Marco Cafiero, Consulente F.I.C.T.