Le cose succedono, prima. Poi, acquistano senso.
Anni Sessanta del secolo scorso, un fatto reale, con nomi e cognomi. Solennità dell’Assunta. Chiesa Cattedrale di Belluno. Vesperi solenni, coro pieno di canonici e sacerdoti, appena conclusi. Rientro in sacrestia. Il canonico molto anziano che presiede, mons. De Toffol, ha pure il compito (per turno) di presiedere l’Eucaristia. In mezzo al clero, si rivolge in dialetto di brutto, a voce stentorea, a mons. Santin, vicario generale, pio e raccolto in sé stesso, spiritualità fatta persona.
“Atu beest bira, ti?”. (Tu, hai bevuto birra?)
– Mi nòe, (Io no) risponde sorpreso, sconcertato e stupefatto.
“Mi sìe, e che bona che la era! Adess dis messa. Ti!”. (Io sì, e com’era buona! Adesso dì messa tu)
E mons. Angelo Santin celebrò al suo posto l’Eucaristia, senza un lamento.
In quel periodo non si poteva celebrare l’Eucaristia e fare la comunione senza un digiuno precedente e pieno di tre ore. Mons. De Toffol, nel calore estivo, s’era ristorato con la birra prima del Vespro e aveva trovato il modo di mettere un altro al suo posto, in certo senso con le spalle al muro. E Santin celebrò e predicò.
Il curioso e simpatico episodio, di consistenza fraterna e di stima reciproca tra i due canonici, mi fa pensare a quanto capita spesso sotto gli occhi. A tutte le volte che, per il proprio piacere immediato, i nostri residenti mettono gli operatori e i loro colleghi con le spalle al muro.
Violano la regola e poi qualcun altro deve provvedere.
Infiniti i modi e le trappole messe in atto per raggiungere il loro scopo. Anzi passano gran parte del tempo giornaliero ad architettare tutto questo.
Ciò costituisce il nucleo basico e radicale del principio della delega irresponsabile.
Si tratta di un principio deleterio, diciamolo pure, “schifoso”. Una pratica che troviamo ogni giorno, che riempie le nostre ore e le nostre giornate. Uno sport che in particolare caratterizza l’intera Italia, di cui facciamo parte. Nessuno è mai responsabile del misfatto che compie. C’è sempre qualcun altro che “deve entrarci”.
Per quanto mi/ci riguarda, un culmine si raggiunse al momento della fuga di tre personaggi da dalla comunità di doppia diagnosi. Uno di essi, con pacchetti, pacchi e pacconi in strada, chiese all’operatore: “Mi porti in stazione? così nel passaggio, magari, mi convinci a tornare”. Come il signor Canonico. Ma su un piano per niente fraterno e per niente libero.
Indipendenza, autonomia e libertà: cose serie. Ogni delega è bandita.
Per questo “Progetto Uomo” mi piace.
Buon giorno e buon lavoro.
Gigetto De Bortoli