L’aver collaborato con il Ser.t dell’Area Penale dell’Asl3 Genovese alla realizzazione del progetto “La cura vale la pena” – ora “Il Ser.t in Tribunale” ha rappresentato per me una forte presa di coscienza sulla necessità di lavorare con il tossicodipendente per una cultura della legalità e della riparazione.

Mi sono reso conto che l’inserimento in un progetto di recupero passa sempre attraverso un momento doloroso, per il consumatore per la famiglia, per la cerchia di persone che gravitano intorno al tossicodipendente.

Intervento al Convegno “ Il Ser.t in Tribunale – Intervento di prevenzione e cura della tossicodipendenza nel processo per direttissima

Può trattarsi di una sofferenza legata all’aspetto sanitario o a quello giudiziario. Quest’ultimo è estremamente frequente e, spesso, rappresenta un momento di fragilità del consumatore sui cui è possibile esercitare una pressione finalizzata ad una scelta consapevole.

La permanenza in carcere spaventa soprattutto i più giovani alla prima esperienza giudiziaria, ma induce anche i recidivi a porre fine ad un meccanismo continuativo e ripetitivo.

Il progetto ha costituito non solo l’esplicitazione dell’idea di evitare, o quanto meno ridurre, l’esperienza carceraria al soggetto con problematiche tossicomaniche, per ragioni che sono ovvie, ma anche quella di evidenziare che ciò rappresenta anche l’esigenza dei giudici di non essere costretti ad applicare la custodia cautelare in carcere in situazioni che meritano un trattamento.

Sembrerà strano ma la realizzazione, inizialmente in via sperimentale, poi in modo strutturato, di tale progetto con un gruppo di magistrati particolarmente impegnati nella gestione dei processi per direttissima, ha rappresentato un importante momento culturale di condivisione: come se la risposta che si è cercato di dare ad un grosso problema sociale rappresentasse anche un aiuto per il giudicante.

In realtà è proprio così; il progetto nasce dalla volontà di contemperare esigenze contrapposte attraverso la proposizione di una soluzione adeguata a soddisfare sia quelle cautelari, della magistratura, che quelle di cura del paziente.

Sulla scorta dell’esperienza maturata fin dai primi anni novanta nell’area milanese, pioniera ed esclusiva realizzatrice dell’idea per un ventennio, anche la nostra realtà locale è riuscita a costruire un presidio del servizio pubblico distaccato all’interno del Tribunale di Genova, ove si celebrano i procedimenti per direttissima, conseguente all’arresto in flagranza di persone tossicodipendenti.

Ha prevalso il dettato normativo secondo il quale non può essere disposta la custodia cautelare in carcere salvo che esistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata è una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata e l’interruzione possa pregiudicare la disintossicazione dell’imputato.

Nel 2006, il Governo intendeva dare vita ad una sperimentazione campione denominata Dap Prima. Si trattava di una sfida impegnativa nei confronti di tossicodipendenti autori di reato che rappresentava un importante segnale del valore aggiunto che la sinergia e la collaborazione tra le Istituzioni può apportare al conseguimento di un obiettivo fondamentale.

Il progetto “La cura vale la pena” ha inteso superare una certa concezione secondo la quale il momento della detenzione può favorire il cambiamento. Tuttavia non è improbabile che la sottoposizione ad una misura cautelare di tipo coercitivo in una struttura a carattere trattamentale possa favorire una scelta senza gli evidenti danni del passaggio attraverso il circuito penitenziario.

E’ proprio nel momento di applicazione di tale misura che il progetto interviene con la forza del messaggio educativo a cui anche il Magistrato è portato ad aderire.

Una valenza educativa forte che viene espressa dagli attori del cambiamento raggruppati nell’ambiente giudiziario, inizialmente portatori di interessi diversificati che finiscono per accordarsi sul perseguimento di un unico obiettivo: il recupero.

Il Magistrato che gestisce il processo per direttissima si pone come l’organo di accertamento della responsabilità penale individuata dal Pubblico Ministero. Entrambi tutelano la collettività attraverso l’applicazione della legge ed assicurano la pubblica sicurezza precludendo all’imputato la possibilità di reiterare il proprio comportamento.

Il difensore tutela in via esclusiva gli interessi dell’imputato, mira al miglior risultato processuale e, nella fase di convalida, primo momento del processo per direttissima, all’applicazione di nessuna misura cautelare o a quella meno afflittiva possibile.

Il Servizio Pubblico per le Dipendenze tende a cercare un aggancio con il paziente laddove non esiste o a consolidare quello esistente che non ha portato, evidentemente, ai risultati sperati.

Tutti questi soggetti evidenziati, aldilà degli interessi diversificati, concordano sulla necessità di offrire al tossicodipendente la possibilità di curarsi. E’ sulla concretizzazione di questa offerta che gli attori processuali si trasformano in attori del cambiamento, indipendentemente dal prosieguo della vicenda giudiziaria. E’ inutile dire che questa possibilità condizionerà anche i successivi sviluppi sotto il profilo sanzionatorio.

Il progetto “La cura vale la pena” ovvero “Il Ser.t in Tribunale” viene, dunque,  ad inserirsi in un momento storico nel quale il legislatore, nell’occuparsi di tossicodipendenza, esprime una serie di contraddizioni che vanificano un impianto normativo teso ad indurre il consumatore di sostanze verso percorsi di cura. Nel contempo, infatti, viene approvata una legge (5 dicembre 2005, n. 251, “ex Cirielli”) che criminalizza il soggetto che dopo essere stato condannato per un reato incorre nuovamente nella commissione di un illecito penale. Ai sensi del quarto comma dell’art. 99 del codice penale, si ritiene recidivo reiterato, quel soggetto che, già dichiarato recidivo, commette un altro reato.

L’attenzione che, la modifica alla normativa in tema di tossicodipendenze datata 2006, vuole rivolgere al dipendente da sostanze perde significato sia in fase di accertamento del reato, sia nel momento dell’esecuzione penale.

L’attenzione cui mi riferisco riposa nella volontà del legislatore di costruire percorsi agevolati al tossicodipendente che sceglie di curarsi. La lunga carriera criminale, aderente alla storia tossicomanica, si pone come un forte ostacolo per l’accesso a quei momenti processuali in cui il Giudice, forte della propria discrezionalità, si trova costretto a sanzionare duramente comportamenti non particolarmente gravi in ragione della situazione pregressa del giovane che vuol affrancarsi, non potendo avvalersi a pieno del proprio potere di adeguare la pena al fatto concreto.

Il recidivo subisce il vero affondo nella riformulazione dell’art. 69 c.p. Questa norma individua una serie di criteri, all’interno dei quali, il Giudicante si deve muovere per applicare tutte le circostanze attenuanti ed aggravanti, facendo prevalere ora le une ora le altre, a seconda del ruolo che le stesse hanno giocato nella realizzazione della fattispecie delittuosa. Il vero potere discrezionale, sotto il profilo sanzionatorio si estrinsecava ( e così dovrebbe permanere) proprio con l’ampia elasticità di questa norma.

L’innovazione non permette al Magistrato di procedere agevolmente nel giudizio di comparazione, soprattutto considerando la delicata opera di bilanciamento tra circostanze non omogenee. Infatti il quarto comma del nuovo testo, redatto in modo alquanto ambiguo ed impreciso, sembrerebbe impedire al Giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti sulla recidiva. Per cui se un autore di reato, gravato da numerosi precedenti, a cui obbligatoriamente deve essere riconosciuta la recidiva, commette una fattispecie delittuosa in presenza di situazioni che, anche oggettivamente, richiederebbero l’attenuazione della pena, non potrà usufruire di una sanzione mite che il Giudice, altrimenti, irrogherebbe.

Alla legge “ex Cirielli” hanno fatto seguito modifiche normative che, di fatto, precludono il trattamento.  L’impossibilità di sospendere la pena, sia pure contenuta nei limiti per l’accesso alle misure alternative, ai sensi dell’art. 656 c.p.p., mediante l’ampliamento dei c.d. reati ostativi, rappresenta una forte contraddizione rispetto a quella palesata volontà di facilitare il percorso tratta mentale. Tra questi rientra il furto pluriaggravato, reato piuttosto comune nel curriculum del tossicodipendente.

L’autore di questa fattispecie criminosa pare escluso dalla possibilità di permanere nella struttura residenziale ove è stato inserito nella fase del giudizio, sia pure con una misura cautelare come quella degli arresti domiciliari.

Ma le contraddizioni non finiscono: l’art. 89 d.p.r 309/90 sembra favorire, invece, quel soggetto che si è reso responsabile dei ben più gravi reati di rapina ed estorsione, ai quali, nella fase cautelare, sono stati applicati gli arresti domiciliari in una struttura residenziale accreditata per la cura ed il trattamento delle tossicodipendenze.

Nella fase dell’esecuzione penale, dunque, pur facendo salva la possibilità per il tossicodipendente di ottenere due volte l’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 94 T.U. DPR 309/90, vengono ad inserirsi norme che precludono la possibilità per il soggetto di ottenere altri benefici in caso di violazione delle prescrizioni sottese alla misura in corso. Tali violazioni, infatti, portano alla revoca del beneficio ed all’impossibilità di usufruire di nuovi percorsi di cura. Questa restrizione è incurante delle difficoltà fisiologiche sottese ad un articolato percorso di cura, costellato da quelle che vengono definite “ricadute” e sulle quali è necessario lavorare per una messa a punto dell’intervento.

Per cui se da un lato si tende ad attribuire alle strutture residenziali un forte potere di intervento, dall’altro le si grava di una responsabilità che inficia la genuinità del trattamento.

Il rigore che si esprime mal si concilia con la volontà di incoraggiare la riabilitazione del tossicomane.

Occorre, dunque, porre attenzione su come questo tipo di progetto sia poco applicato sul territorio nazionale. Ciò rappresenta un’ulteriore dicotomia tra la volontà del legislatore di incoraggiare i percorsi di recupero, sia pure in assenza di adeguate risorse finanziarie, e quella di creare sicurezza attraverso interventi normativi volti a rendere difficoltoso l’accesso alle misure cautelari attenuate e a quelle alternative alla detenzione.

Il paradigma di giustizia riparativa richiede un forte ripensamento dell’esecuzione della pena che superi il concetto di mera afflizione e separazione del condannato dalla società, assumendo contenuti educativi che facciano della riparazione il momento fondamentale della ricostruzione della frattura che si è creata, attribuendo da un lato un maggiore ruolo alla vittima e dall’altro la possibilità all’autore di una concreta riparazione del sé.

di avv. Marco Cafiero