Il Presidente Napolitano tuona, giustamente, contro la vergogna del nostro sistema carcerario. Ma non è il primo a farlo, sono anni che il problema torna a tormentare le coscienze, a fasi alterne.

Il Ministro della Giustizia, fin dal momento del suo insediamento ha fatto comprendere come le stia a cuore la risoluzione della vicenda, trattata, fino a questo momento, sempre con mota leggerezza e sbrigatività. Leggasi indulto di mezza estate. Ma, soprattutto, ci ha fatto capire la sua intenzione di non limitarsi a slogan ma di rispondere con coscienza ai problemi della Giustizia.

Le recenti dichiarazioni del garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone, nulla aggiungono e nulla tolgono al dibattito: rimarcano, soltanto, quello che da tempo si va dicendo circa l’impianto normativo del DPR 309/90, aggravato dalla modifica del 2006. Certo è che il sovraffollamento si risolverebbe con 10.000 ingressi in meno. Ma come stabilire quanto la normativa in tema di stupefacenti influisca effettivamente sulla popolazione carceraria. Non si può generalizzare dicendo che il carcere è pieno di tossicodipendenti. Costoro non sono detenuti solo in ragione della violazione della citata disciplina, bensì per tutta una variegata serie di reati contro il patrimonio, legati sicuramente al proprio stato tossicomanico.

Con questo lungi da me difendere la disciplina sugli stupefacenti di cui, nel tempo, ho messo in evidenza le contraddizioni e l’inutilità di un regime sanzionatorio disordinato che equipara categorie di illeciti, in modo del tutto privo di senso di realtà. Ma con questo non è l’unico impianto normativo da crocifiggere.

Continuo a ripetere che le mani vadano abbondantemente mese all’interno della legge sulla recidiva, di cui non sento mai parlare: non entra mai a far parte delle considerazioni sul sovraffollamento carcerario. Ma ci siamo mai chiesti quanto abbia influito sul numero di persone ristrette, principalmente tossicodipendenti, categoria più portata alla reiterazione dell’illecito.

Il garante Corleone fa giustamente comprendere come il carcere non sia il luogo di rieducazione previsto dalla Costituzione. Sarebbe impossibile attuare progetti educativi e risocializzanti – con tutta la buona volontà – in una situazione logistica e affollata quale quella dei nostri Istituti Penitenziari. La presenza massiccia di persone in attesa di giudizio inficia davvero la possibilità che la pena – e non l’eventuale anticipazione della stessa – possa rappresentare un momento di assunzione di responsabilità nei confronti della frattura del patto sociale e, quindi, una riappropriazione di risorse efficaci per vivere all’interno di quel contesto da cui si è deciso di prendere le distanze, violando le norme comunemente accettate.

Probabilmente questa presa di coscienza potrà avvenire allorché sia approvata la legge sulla sospensione del procedimento con messa alla prova. Un istituto degno di un Paese moderno che guarda ai propri cittadini come risorse utili per la propria crescita, investendo sulla possibilità di armonizzarne la convivenza, prevenendo il reiterarsi di comportamenti delittuosi, senza rinunciare alla pretesa punitiva che risponde alle esigenze di sicurezza sociale.

Demagogici proclami che invocano provvedimenti di clemenza, ormai, non rispondono né al bisogno di favorire il reinserimento sociale, tanto meno a quelle esigenze di sicurezza di cui, ahimé, continuiamo a necessitare.

di avv. Marco Cafiero