Da anni mi esprimo sull’indulto cercando di vedere nell’istituto tanto discusso alcuni elementi che potrebbero rivelarsi utili alla politica penitenziaria, ma ancor più volti a rispondere a quella volontà inclusiva delle persone che hanno violato la legge e che fu l’ideale riabilitativo della riforma del sistema penitenziario del 1975.
Ora non ha senso ripercorrere la storia delle misure alternative che, pur tra le polemiche di alcuni, hanno sempre portato più benefici che danni alla società. Ecco perché, pur nell’alternanza di orientamenti politici, il tema delle misure alternative quale risposta giudiziaria adeguata al benessere sociale non è mai stata messa in discussione. Attualmente stiamo assistendo ad interventi normativi preoccupanti dovuti all’aumento di pene e alla carcerazione di situazioni fino a questo momento intoccabili: minori e donne in stato di gravidanza.
Inoltre, assistiamo al fallimento della finalità rieducativa della pena che la Costituzione ha sancito in modo inequivocabile.
Allora ci si domanda a quali contraddizioni ideologiche stiamo andando incontro.
Ed ecco che si torna a parlare di indulto e lo fa la Presidente di Magistratura Democratica che condivide le preoccupazioni di chi nel sistema giudiziario/carcerario opera, preoccupazioni che forse toccano meno la popolazione indifferente al fenomeno in divenire ma attenta all’ideale di sicurezza che questo governo trasmette. Si ipotizza un’assenza della società civile, totalmente deresponsabilizzata ad un problema delegato totalmente all’Autorità Giudiziaria.
So di non essere solo ad esprimere queste riflessioni, per cui evito di ripetere le lamentazioni di chi opera nel sociale e che si susseguono, e mi limito a tentare di coniugare la richiesta di indulto intesa come lotta all’usuale sovraffollamento carcerario, sicuramente non attribuibile in via esclusiva a questo governo, ma situazione che ci portiamo dietro da quarant’anni e che neppure le misure alternative sono riuscite a debellare. Tutto ciò a dispetto della volontà della precedente legislatura di dare vita al fenomeno della riparazione come una delle risposte al sistema.
Bene, è evidente che la Giustizia Riparativa rappresenta una mia fissazione, ma ogni giorno incontro persone di forte spessore culturale che auspicano un’evoluzione naturale di un fenomeno di cui si parla, ormai, da tempo immemore.
Sono fermamente convinto che la situazione attuale sia intollerabile, sia per il numero di sucidi, sui cui si esprime finanche il Presidente della Repubblica, sia per l’aumento della popolazione carceraria, e che un provvedimento di clemenza possa costituire un momento di riflessione su quello che si vuole davvero fare per la sicurezza del paese. Sembra una contraddizione pensare che liberando detenuti si persegua la sicurezza del paese, ma un pensiero sull’attuazione di percorsi risocializzanti che includano la riparazione risponde più adeguatamente alla domanda di sicurezza.
Non va dimenticato che la popolazione penitenziaria è ancora fortemente rappresentata da persone con problemi di dipendenza a cui il sistema sanitario risponde con difficoltà. Una difficoltà che deriva da una ridotta politica economica di lotta alle dipendenze, tema che ha perso interesse e che vive solo grazie a normative esistenti e alle strutture del privato sociale che, a fronte di lente liste di attesa, accolgono e contengono un fenomeno che non limita la propria espansione.
Nessuno pensa che un percorso di trattamento, che difficilmente può attuarsi all’interno di un istituto penitenziario, possa includere esperienze riparative e che le stesse possano trovare spazio solo se ci orientiamo verso una politica di decarcerizzazione.
Le polemiche sulla Giustizia Riparativa affliggono i processi in corso e l’applicazione delle misure alternative perché mancano ancora le strutture adeguate, i tempi per la loro realizzazione sono lunghi così come la formazione degli addetti. Per cui non sarebbe forse utile fermarci a riflettere sull’attuazione di ciò che esisterebbe favorendo, nelle more, uno sfollamento carcerario caratterizzato da un momento di pacificazione collettiva che aiuti tutti a pensare in modo differente?
Sono troppo idealista se ritengo che siamo tutti chiamati ad uscire dai nostri problemi per occuparci del benessere collettivo contribuendo a crescere come esseri umani che si prendono cura di altri esseri umani, invece di continuare a difenderci in modo acritico? Sono ancora idealista se ritengo che una maggiore partecipazione della società civile all’azione rieducativa possa attribuire al Carcere quella funzione residuale dell’azione penale?
Probabilmente sì, ma questo non mi impedisce di continuare a pensare che un provvedimento di indulto, nelle forme più opportune, non possa provocare danni ulteriori. Non penso neppure che possa rappresentare la redenzione di chi è incline a violare la legge, ma una possibilità per quelli che ci vogliono provare sicuramente non è da escludere, con evidenti ricadute benefiche sulla collettività.
Nel frattempo possiamo pensare a far funzionare la Giustizia Riparativa come strumento culturale e complementare al sistema senza che nessuno si senta depauperato delle funzioni divine che gli sono state attribuite, ma con l’auspicio che ciò possa rappresentare un’opportunità anche per le persone offese, mai realmente soddisfatte dell’intervento della Magistratura.
Nel frattempo induciamo il Governo a rivedere certe recenti politiche penali frutto della paura che vanno nel senso della criminalizzazione di soggetti fragili che diventeranno sempre più vulnerabili e probabilmente più criminogeni.
Riflettiamo.

Avv. Marco Cafiero – Consulente F.I.C.T.