“Sconcerto” è la parola che più efficacemente identifica il sentimento che proviamo di fronte alla notizia della madre detenuta che ha ucciso la figlia nel carcere di Rebibbia e ferito il fratellino maggiore.

Sconcerto perché la società di cui facciamo parte si pregia di voler essere “educante” ma, di fatto, non appronta tutte le risorse necessarie a questo ruolo.

“Proviamo sconcerto di fronte alla notizia della madre detenuta che ha ucciso la figlia nel carcere di Rebibbia..”

Pensiamo alla legge n. 62 del 21 aprile 2011 che ha ipotizzato la creazione di istituti a custodia attenuata per la detenzione di detenute con figli, in realtà sul territorio queste esperienze sono ridotte, a Rebibbia c’è solo l’asilo nido.

Ma quello che maggiormente indigna non è la volontà del legislatore di addolcire la detenzione rendendola più simile ad una realtà abitativa che dia il senso di comunità, bensì la mancata volontà di evitare il passaggio carcerario per esseri innocenti.

Se da un lato si tende a mantenere in vita il rapporto madre – figlio, dall’altro si infligge ai minori il trauma della restrizione della libertà.

La legge 23 giugno 2017, n. 103 attribuisce al Governo la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario dettando precise linee guida volte all’ampliamento delle misure alternative, appannaggio della società educante ed inclusiva cui facevo cenno,  e reca indicazioni significative che offrono la possibilità di accesso a tali misure alle madri con figli minori, proprio per evitare il pregiudizio derivante dalla permanenza in istituto di bambini costretti a condividere ingiustamente lo stato detentivo.

La c.d. Riforma Orlando, dunque, si interroga sulla pena ed evidenzia l’annosa questione dell’alternativa alla stessa, che non ne vanifica la certezza ma ne sottolinea la compatibilità educativa del dettato costituzionale.

Il territorio si fa carico di possibilità e risorse che riducono il pericolo di recidiva offrendo situazioni inclusive scevre da forme di assistenzialismo generiche e foriere di opportunità.

L’attuale orientamento politico sembra voler percorrere, però, l’impervia strada della sicurezza attraverso la riduzione di tali possibilità, invocando la certezza della pena inasprendola per quei reati di particolare allarme sociale e riducendo l’accesso alle misure alternative che, statisticamente ed inequivocabilmente si sono dimostrare un fattore di riduzione dei comportamenti delittuosi recidivanti per chi ne ha usufruito.

Un tale orientamento si palesa poco lungimirante sia in termini di sicurezza – e non sono troppo risalenti la legge ex-Cirielli e la  modifica del DPR 309/90 del 2006 che non hanno ottenuto gli obiettivi proposti –  sia in termini di pacificazione sociale.

Ed è per questo che voglio richiamare il concetto di “società educante” quale valore che sembra stemperarsi nella paura e nella diffidenza nei confronti del diverso, richiamando la società a quel senso di responsabilità legato alla solidarietà ed alla necessità di rappresentare una comunità inclusiva e non esclusiva, evitando così di creare vittime innocenti di errori altrui.

La nostra Federazione da sempre, con le oltre 50 sedi operative, individuate per decreto del Ministero della Giustizia, per l’affidamento di imputati in misura cautelare e condannati in misura alternativa, offre risposte che si pongono in linea con il valore di “società educante” che crea sicurezza e benessere sia agli individui che alla collettività.

Forti della nostra esperienza ci possiamo permettere di provare sconcerto di fronte all’episodio accaduto a Rebibbia. avv. Luciano Squillaci – Presidente FICT”

Elisabetta Piccioni

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