Ci troviamo in una situazione davvero difficile, una situazione che il nostro mondo occidentale non ha mai provato. Fino a questo momento ci siamo sentiti immuni perché convinti di aver raggiunto un grado di progresso tale da consentirci di debellare le epidemie. L’Aids, che ha afflitto l’ultima parte del secolo scorso, è stato contenuto grazie all’informazione e alla ricerca.
Ora ci troviamo di fronte ad una realtà che sta distruggendo i rapporti economici e sociali.
I mezzi di informazione sono concentrati sul fenomeno e tralasciano qualunque altro tipo di notizia, tuttavia la criminalità ha subito una decisa flessione.
Resta sospeso il pianeta carcere quello che racchiude un universo fragile ancora più separato dal resto della collettività.
I contatti tra detenuti e familiari sono soltanto virtuali, il personale che agisce all’interno degli istituti penitenziari opera nel disagio e nella paura. I Magistrati di Sorveglianza sono costretti a concedere benefici che non rispondono alla logica della riabilitazione sociale bensì alla tutela della salute pubblica.
Se la detenzione rappresenta una risposta alla sicurezza sociale, ora rischia di esprimere una polveriera ancora silente.
E’ venuto il momento di riflettere anche su questo problema. Da anni predichiamo che il carcere debba rappresentare l’ultima e più grave risposta alla commissione di un delitto; non ritengo utile ribadire come la misura alternativa offra opportunità più efficaci di riduzione del fenomeno criminale se gestita con attenzione e competenza.
I provvedimenti di clemenza, fino a questo momento, esprimevano la difficoltà del mondo giudiziario a rispondere adeguatamente attraverso la sanzione. Difficoltà che emerge anche legge sulla prescrizione, sintomo dell’inadeguatezza del sistema a reagire in modo rapido assicurando la certezza della pena.
Ora di fronte alla crisi globale della società, investita dallo tsunami virale, è utile che il governo, sia pure oberato da decreti e provvedimenti a tutela della salute pubblica, pensi ai detenuti come parte di questa società, ed ipotizzi di varare un provvedimento di clemenza che fronteggi sia il virus che il sistema giudiziario il quale, tra pochi mesi, esploderà a causa della paralisi degli uffici per i continui ed estenuanti rinvii dei processi.
Questi si accumuleranno e le risorse economiche per fare fronte al fenomeno si ridurranno sensibilmente.
Per questo motivo un provvedimento di clemenza, pur rispondendo ancora una volta ad esigenze organizzative, potrebbe introdurre il valore aggiunto della pacificazione sociale e vanificare l’aggravamento della componente afflittiva della pena, a favore della parte educativa che tutti auspichiamo da tempo.
Gli italiani hanno dimostrato di sapersi adattare, di stringersi, pur mantenendo le dovute distanze, e combattere.
Proviamo a capire e sperare che anche la parte più fragile della nostra società sia in grado di lottare per un domani migliore anche se questo domani sembra lontanissimo.
Manteniamo le distanze fisiche ed accorciamo quelle sociali attraverso un amnistia che non viene varata da trent’anni o un indulto che latita da quattordici.
In questo modo potremmo aiutare anche gli operatori della giustizia a rivalutare la propria funzione sociale e a fornire risposte che coniughino sicurezza ed efficienza.
di Marco Cafiero, avvocato penalista