Ci sono anche io, guardo e … vedo
Vedo Gesù in preghiera, che chiede al Padre, se è nella sua volontà di allontanare il calice dell’amarezza e lo sento non solo profondamente Uomo, ma lo sento vicino, compagno nel viaggio per i sentieri dell’umanità. E’ uno di noi e porta il peso, lo strazio, fino a chiedere di essere, se possibile, risparmiato.
Eppure, nella notte in cui ebbe solo il conforto di un Angelo e non l’allontanamento del calice, mi emoziona quel suo perseverare a dare a Dio il nome di Padre, con una confidenza che fa venire i brividi.
Pasqua 2016
Gesù prega e mi insegna una nuova dimensione della preghiera dentro un dilemma: pregare perché ci siano risparmiati i passaggi faticosi, le tempeste della vita o pregare affinché non ci sentiamo soli e abbandonati nell’attraversarli?
Mi insegna a provare l’emozione di una preghiera più vera e profonda, il bisogno di non lasciarsi andare ad un tempo senza opporre la minima resistenza, non vittime di interesse altrui e sempre vigili, per essere in grado di fermarsi … riflettere… e ripartire.
Dio non ci salva dalla sofferenza ma nella sofferenza. Non ci libera dalle tempeste ma ci dona forza dentro le tempeste; la forza di non arrendersi di fronte alle sconfitte, la luce di un amore luminoso, capace di vibrare nell’aria con la velocità del vento ma silenzioso come la discrezione.
Gesù chiama Dio, Padre, con confidenza, con dolcezza, fiducia assoluta e rispetto. Già, rispetto, parola abusata, contaminata dalle nostre tante promesse mai mantenute; deturpata dalla nostra indifferenza dinanzi alla morte di innocenti, ecceduta dalle nostre eclatanti menzogne di appartenere ad un unico popolo mentre chiudiamo gli occhi davanti ad un mare tinto di rosso che lascia sulle spiagge assolate troppe vite finite. Tutti nostri fratelli. Vedo volontari che tendono le braccia a bambini dagli occhi scavati, che non giocano nei barconi della speranza. Mentre noi ci nascondiamo dietro le bugie e con esse facciamo scudo per scaricare i pesi dalle coscienze quando in realtà dovremmo essere disarmati e innocenti proprio come Gesù di fronte al bacio di Giuda. Con una domanda tenera, gli chiede come si possa svilire, dissacrare un bacio a strumento di tradimento. Quasi a farci riflettere come siano feriti, distrutti i rapporti, ferita e distrutta ogni convivenza umana, quando a trionfare è la menzogna, quando i gesti e le parole vengono abusati, usati per dire spudoratamente l’opposto di ciò che si ospita nel profondo dell’anima.
Troppe volte siamo traditi, inaspettatamente, colpiti alle spalle dalle persone che amiamo, nelle quali crediamo, nelle quali riponiamo la nostra vita con fiducia. Ed è proprio la fiducia la prima a crollare, lasciando la devastante sensazione della delusione e un acuto dolore. E’ l’ora della notte, l’ora della grande menzogna. E quanta fatica a comprendere! Mentre Lui ci accarezza i capelli con la dolcezza di una madre ma spesso non lo avvertiamo. Ci sentiamo soli in certi angoli dell’anima, dove sembra che davvero nessuno possa raggiungerci o dove ci isoliamo volontariamente perché abbiamo bisogno di stare di fronte a noi stessi, con la speranza che dalle crepe del nostro vaso di terracotta, prima o poi, filtri la luce.
E vedo anche Pietro, accanto al fuoco, mentre misura la sua debolezza. Non ha il coraggio di rischiare, le parole coraggiose si sono dissolte nelle ombre e in esse restano le parole di una persona impaurita che spergiura di non conoscere il suo Maestro. Il canto del gallo libera la sua vera identità, la distanza dalla professione di fede. Il gallo dovrebbe cantare chissà quante volte per noi a misura della grande distanza tra professione di fede e coraggio della vita. Ma per Pietro il canto del gallo è grazia: ancora non si è dissolto nell’aria e Gesù si volta e fissa lo sguardo su di lui. E Pietro in Lui vede la misericordia, vide nei suoi occhi un amore più forte del cuore che accusa. Quel giorno conosce il Signore. Versa lacrime amare, lacrime di chi si è abbandonato a quell’amore: ora Pietro può confermare i fratelli, perché non sono i presuntuosi che possono confermare qualcuno, quelli possono solo allontanare. Eppure Dio continua a fare spazio anche alla mia pochezza. Il mio cuore lo sente e scoppia in un pianto. Vorrei abbandonarmi a Lui, là dove nasce il coraggio di architetture capaci di accogliere le ferite inferte dai comportamenti altrui, le tristezze delle delusioni, gli egoismi di coloro che amano punire. E ripartire.
E anch’ io vedo buio sulla terra… quando muore un uomo giusto, è sempre buio con lo stesso cielo che si oscurò, avvolgendo nel buio l’umanità, quando morì Colui che in mezzo a noi diede luce con la sua vita non solo alla giustizia degli uomini ma anche a quella di Dio. Non sono solo tenebre esteriori, sono tenebre di umanità, oscuramento di umanità, vuoto di umanità. E a volte la sensazione è che il Venerdì Santo continui, in quanto oscuramento di umanità. Le tenebre non sono finite. Forse il cielo non si oscura più, ma c’è oscuramento di umanità, dentro e fuori di noi. Quando si oscura Dio, si oscura l’umanità, cresce la disumanità. E quando cresce la disumanità sulla terra, il cielo si oscura, Dio è oscurato.
Ma in quella passione, dentro le tenebre, brilla anche una luce. Vedo alcuni sprazzi di luce, deboli squarci: le donne che piangono su di Lui, donne che guardano intenerite, il cireneo che porta la croce, il ladro che lo riconosce giusto, il centurione, Giuseppe di Arimatea che, con rispettose ed amorevoli cure, lo discende dalla croce. Lampi di umanità che vorremmo invocare per noi: la grazia di non essere sedotti dal potere, di portare il carico con gli altri, di riconoscere il giusto anche quando è sfigurato; la grazia di curare le ferite e dare l’ultima tenerezza ai morti.
La grazia, Signore, di guardarti, come il ladro, dall’abisso della nostra disumanità e di pregarti: ricordati di me, Signore nel tuo Regno. Ma quale Regno se tutto dice sangue, sconfitta, morte? Ecco, come me, anche tu non fermarti, arriva sotto la croce e guarda: è l’ora dello svelamento di Dio, di suo figlio e del disegno di una vera umanità. Su quella croce c’è un uomo che non si vendica, ma perdona; un uomo che non guarda a sé, ma agli altri; un uomo che non si difende, ma si consegna. Un uomo che non salva se stesso. E rimane sulla croce come Colui che sceglie di perdere la vita. E perdona. La logica di chi, anche davanti alla più intollerabile evidenza, scommette sull’amore. Non è sceso e non scende dalla croce perché nessuno dei suoi figli può scendere dalla croce. Non è sceso per essere con te, come te. Fedele anche nell’ora estrema alla compassione, compagno di ognuno di noi, che soffriamo la nostra lontananza e a volte pure la lontananza di Dio, compagno dei giorni in cui il cielo si fa buio e la passione per il bene di tutti sembra uscire sconfitta. Quelle braccia distese ed inchiodate in un abbraccio dicono solo accoglienza che non esclude, porte spalancate per sempre. Ora sai chi è Dio.
E nel giorno della resurrezione vedo correre: Maria, Pietro, Giovanni. Tutti corrono. Ma ognuno con il proprio passo, al ritmo del proprio cuore e del proprio desiderio, ognuno arriva al sepolcro in modo diverso e vede cose diverse, o sicuramente in modo diverso. Che non venga mai meno questo correre affinché la vita non sia un dormire ad occhi spenti. Che la Chiesa non sia a passi lenti o chiusa nei cenacoli. Che la Chiesa ritorni, ognuno di noi ricominci a vivere come coloro che corrono nel mattino di Pasqua. Non c’è una luce folgorante che ti vince e ti piega. La Resurrezione di Gesù è una voce silenziosa, non si impone, non grida, si propone. Come la fede. Pietro vide solo dei teli per terra, teli arresi, segni disabitati. Gesù abita altrove. Abita nella vita. Dio non è nei segni della morte. Dio è nei segni della vita. La vita la ritrova solo chi sa donarla e Gesù, avendola donata in una misura senza misura, la vita l’aveva ritrovata, era risorto. Chi ama passa dalla morte alla vita. Questo è ciò che dovrebbe narrare la Chiesa, sulle strade impolverate, nell’ombra della sera. Dopo, solo dopo aver letto la tristezza nei volti, solo dopo aver ascoltato. Perché se una Chiesa si mette a fare cronaca, a dire ciò che tutti vediamo, si rende insignificante. Ha invece come impegno quello di raccontare il senso, legato alla morte e alla resurrezione del suo Signore: e il senso è che chi ha il coraggio di amare, si fa per ciò stesso vulnerabile come il suo Signore, ma passa dalla morte alla vita. Quella tomba vuota ci dice che il risorto è fuori, lungo le strade. Non le strade che fuggono dalla vita, non quelle del disimpegno o della resa. La Pasqua ci interroga profondamente: in cosa, su cosa o per cosa la nostra vita si è fermata, o al contrario, verso cosa la nostra vita può ancora una volta e sempre rimettersi in cammino, anzi può e deve rimettersi a correre? La storia, ogni piccola o grande storia, può riprendere il suo cammino solo nella misura in cui qualcuno accetta di rischiare la speranza. La risurrezione del Signore rimette ali ai piedi del desiderio, del cuore, dell’anima.
Allora anche tu racconta che Lui è vivo, che vince l’amore, che vince la vita. L’amore che sulla croce sembrava perdente, ha vinto, ha sconfitto la morte. Allora vai, dì che si può cambiare rotta, dì che non vince la morte, ma vince l’amore. Ma dillo con i tuoi gesti. Dillo con la tua cura. Noi a volte diciamo che è risorto ma a voce vuota e ancor più a gesti vuoti. Ma come è possibile dire la resurrezione, dire la vita, con gesti senza vita, con gesti che non si prendono cura della vita, che non comunicano fiducia nella vita? Che la resurrezione sia scritta sui volti, sul tuo volto, sia scritta nella vita, nella tua vita.
Il Signore è veramente risorto e continuamente risorge in ogni svolta della nostra vita.