Con grande piacere saluto la pubblicazione di questo importante contributo alla chiarificazione e, in prospettiva, anche al rilancio del ruolo «storico» delle Comunità Terapeutiche (CT) nel quadro delle imponenti e per tanti aspetti inquietanti trasformazioni delle politiche pubbliche socioassistenziali in tutti i Paesi a welfare maturo, tra cui l’Italia in prima fila. Nel bene e nel male, il nostro Paese è stato senz’altro un punto di riferimento per esperienze rilevanti nel campo dei trattamenti delle dipendenze mentali — così come nell’ambito più noto della psichiatria.

Il volume raccoglie i principali contributi emersi nel Seminario internazionale che ha riunito a Genova 200 esperti della WFTC. Scritto per operatori e studiosi che vogliono approfondire strategie e strumenti di risposta al dilagare delle dipendenze

Gli esiti funzionali spiccioli di tali pratiche sono stati in genere valutati e soppesati a sufficienza ma a fronte del rivolgimento paradigmatico in cui siamo immersi, volenti o nolenti è necessario acuire lo sguardo e potenziare la ragione per scandagliare i fenomeni più in profondità. Non è semplice decifrare la portata e la natura dei sedimenti socioculturali che decenni di pratiche terapeutiche mosse da buoni intendimenti e da crescente tecnicità hanno lasciato sul terreno, ma è su questo basamento o zoccolo duro di atteggiamenti professionali, e più in generale civici, che si potrà forse ricostruire un sistema di welfare all’altezza dei tempi grami — sicuramente meno enfatici e meno ingenui — che sono all’orizzonte.

In questo quadro si colloca il volume qui presentato e, prima ancora, la grande Convention (ottobre 2010) della World Federation of Therapeutic Communities da cui queste pagine hanno tratto vita grazie all’ottimo lavoro di curatela del collega Mauro Palumbo e dei suoi collaboratori. I saggi contenuti nel testo trattano in maniera approfondita tutti gli aspetti cruciali della vita delle CT. Nulla posso aggiungere qui nel merito, se non sottolineare ulteriormente il nodo della relazionalità.

In questi decenni le CT hanno rappresentato, se si vuole, un’apparente controtendenza rispetto alle politiche sociosanitarie e socioassistenziali moderne, basate come noto sul principio della community care (deistituzionalizzazione) e della valorizzazione delle relazioni informali di aiuto nei territori, dove le persone «destinatarie» dei servizi vivono e lavorano. L’esperienza delle CT in tutto il mondo ha mostrato come tali principi debbano essere declinati diversamente a seconda della specificità dei problemi, anche all’interno dello stesso campo in espansione delle dipendenze, ma mai contraddetti frontalmente o radicalmente. L’utilità strategica di troncare di netto le relazioni «ecologiche» nel mondo della vita delle persone dipendenti non è in contrasto con la necessità di pensare il processo di cambiamento — laddove possibile — come portato di dinamiche relazionali autentiche prima ancora che di manipolazioni tecniche illuminate. Le CT efficaci — come direbbe Carl Rogers — troncano e sopiscono le relazioni invischianti e al contempo fanno perno su quelle virtuose per il rilancio e la qualificazione di rapporti autenticamente e semplicemente umani, sia nel setting chiuso iniziale (non a caso, quella istituzione è stata denominata «comunità») sia nello svolgersi successivo del nuovo progetto di vita «normale» psichicamente preparato in quell’ambiente chiuso ma — se, per l’appunto, efficace — mai autoreferenziale.

L’esperienza mondiale delle CT ha dimostrato che «chiudere» va bene ma non per soffocare il recovery nei tecnicismi bensì per concentrare le energie psichiche e prepararsi a nuove responsabilità civiche, sia verso se stessi e la propria famiglia sia verso le comunità locali e le istituzioni. Il principio di relazionalità, che rimane centrale nelle esperienze di mutualità (come ad esempio nei gruppi di auto-mutuo aiuto) ma che anche si vede all’opera nelle ordinarie attività quotidiane dentro una ben impostata CT, evidenzia quella che rimane a mio avviso la linea portante per delle ragionevoli strategie di nuovo welfare, vale a dire l’incontestabile valore umano (e quindi valore sociale tout court) delle esperienze di recupero. Recuperarsi vuol dire imparare, spesso con immense fatiche, a ri-orientare la propria vita. Chi ci riesce, non fermandosi ai primi seppur fondamentali passi dell’astinenza, può essere considerato, a tutti gli effetti, maestro di umanità.

Le persone che «escono» dalla dipendenza non sono letteralmente «utenti» né nel periodo duro del recupero né tantomeno nella successiva epoca del «reinserimento». Affermiamo questo giacché quando una persona si trasforma e quando poi torna trasformata nel proprio ambiente di vita, non è solo da vedersi come un essere che subisce gli influssi di un ambiente benevolo e ne viene migliorato, quanto piuttosto come polo virtuoso di una relazione sociale umanizzante a tutto tondo. Con l’esito, strano in apparenza ma meraviglioso e perfettamente giustificato da logiche stringenti, che tante di queste persone diventano nei fatti validi «operatori sociali». Esperti capaci di impegnarsi utilmente nei medesimi programmi terapeutici da loro stessi attraversati e in altri progetti di welfare territoriale dove l’esperienza di essere andati a fondo del proprio vivere e di averlo alla fine riacquistato, fa la differenza. Come ho cercato di dimostrare in qualche mia opera di ricerca**, infatti, un «servizio sociale» illuminato è, di questi tempi, solo quello che sa trasformare le pietre scartate in testate d’angolo.

* È professore di Metodologia del Lavoro sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove coordina il Corso di laurea in Servizio sociale e il Corso di laurea magistrale in Scienze del Lavoro sociale e delle politiche di welfare. È co-fondatore del Centro Studi Erickson e dirige la rivista scientifica «Lavoro Sociale». È inoltre autore di numerosi studi sul social work e le politiche di welfare.

** Si segnalano, su tutte, Tossicodipendenti riflessivi e Natural Helpers, edite entrambe per i tipi delle Edizioni Erickson)

fonte: “L’Abbraccio” n.68, Rivista di informazione trimestrale del Centro di Solidarietà di Genova

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