“Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…”.
Siamo ancora lontani da questa invito evangelico!
Caritas Nazionale, Intervento al Seminario:”Dipendenze, nuove sfide e nuovi sguardi”, Roma, 25 giugno 2015
Se guardiamo, con occhi attenti, l’evoluzione che il fenomeno della dipendenza patologica ha avuto negli ultimi 40 anni, si evidenzia che è cessato in esso il livello di opposizione sociale e la trasgressione che incarnava negli anni 70, e che al rito collettivo del buco si è sostituito l’uso solitario delle sostanze e degli oggetti che potenziano la performance individuale.
Anche nelle dipendenze patologiche il Noi è stato sostituito dall’Io: questo è il paradigma della post- modernità. Non è necessario essere profeti per affermare che i vasi comunicano e i sistemi si contaminano: detto in altri termini, l’individualismo infiltra tutti i settori della nostra società, dall’alta finanza fino ai livelli più emarginati. Il dogma della post modernità è che ci si fa da sé, che si vince soli, e solo per proprio merito personale, ma l’altra faccia della medaglia è che anche la sconfitta è determinata dalla incapacità personale, per cui chi non vince diventa uno scarto, uno scarto umano. La perdita del valore del senso di comunità ha il prezzo alto- altissimo di un enorme produzione di rifiuti umani.
“Ho licenziato Dio, gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore.”
Così iniziava il Cantico dei drogati che Fabrizio De Andrè scrisse circa quarant’anni fa. Ho licenziato Dio: le prime parole esprimono, a meraviglia, il senso di vuoto, il senso che la perdita della relazione lascia. Da qui la disperazione, la tossicodipendenza, l’isolamento.
Quanto è cambiato quel mondo oggi! De Andrè allora raccontava di uomini soli, disperati bohemien, emarginati e incompresi o ricercatori lisergici e solitari che giocavano con il proprio cervello cercando di lanciarlo oltre i confini dell’infinito …
Il Cantico dei drogati di questi tempi suonerebbe diverso, radicalmente diverso. Parlerebbe di uomini altrettanto disperati ma integrati nel tessuto di una società che è nel suo complesso sempre più “drogata”. Di persone che cercano il divertimento più che lo stordimento, la performance sociale più che la solitudine, il conformismo più che la trasgressione.
Ma, sono convinto, incomincerebbe con le stesse drammatiche parole di vuoto: ho licenziato Dio!
E sono convinto di una cosa ancora più terribile: non sarebbe più solo il Cantico dei drogati, ma il canto di resa dell’intero mondo occidentale. Ma è proprio questa resa che ci sfida!
È un’epoca in cui il Welfare e tutto l’universo dei diritti che si erano affermati negli ultimi decenni è nuovamente rimesso in discussione, se non in termini di principio, sicuramente nella concretezza dei fatti. Lo stato, le istituzioni, la sanità pubblica non sono più in grado di dare risposte concrete alle povertà vecchie e nuove ed è ovvio che non si possa dare risposte neppure alle dipendenze patologiche. Le comunità che chiudono o che devono riconvertirsi ci riportano, di fatto, ad una realtà storica che credevamo superata e che richiede nuove risposte, nuovo impegno, nuove battaglie.
In nome della crisi, economica, globale, sociale, spietata, un pezzetto alla volta e poi grossi pezzi di sociale sono stati rosicchiati. A farne le spese, come sempre nella storia, sono stati i più deboli. E chi sono i più deboli nel variegato sistema economico in cui viviamo? Noi, o quelli che, come noi, offrono a prezzi stracciati servizi alla persona. Quelli che, in nome di una vocazione all’umano, costruiscono e difendono diritti. Quelli che, negli anni, avevano pensato che questi diritti fossero ormai garantiti.
Un pezzetto alla volta questi diritti sembrano essere venuti meno, se non sulla carta almeno nelle prassi quotidiane, nelle spalle alzate dei funzionari e degli amministratori che rispondono “non c’è copertura finanziaria”, “ci sono i tagli”, “siamo in spending review”… siamo in piano di rientro.
Questo lento, silenzioso e meticoloso attacco alle fondamenta dello stato sociale ci porta, oggi, alla fine di questa brutta storia: il Welfare è rimasto solo una casa vuota, non esiste più, è solo un orizzonte ideale di senso ma senza sostanza che lo riempia. Oggi, alla fine di questa storia, il servizio alla persona non è più un diritto, ce lo diciamo senza vittimismo e senza rassegnazione ma con una buona dose di senso di realtà!
In una società in cui gli scarti umani aumentano, in una società in cui i ruoli educativi all’interno della famiglia sono saltati, in una società in cui il bene supremo diventa la sicurezza e non l’unione, beh, lì allora il nostro ruolo educativo ha bisogno di una profonda riflessione. Che parta dalle famiglie, che coinvolga gli educatori, che ricordi a tutti noi, che per costruire una casa solida bisogna costruirla sulla roccia e che la roccia è la regola aurea della spiritualità. I nomi di Dio sono bene, giustizia, libertà e responsabilità. Racchiusi tutti nella parola magica dell’amore, non buonismo ma amore responsabile. Oggi è quanto mai necessario che, insieme, riflettiamo sugli scarti umani che bussano alle nostre porte e che hanno bisogno di apprendere dove è la differenza tra il bene e il male. Sappiamo già che le difficoltà aumenteranno perché persone sempre più disgregate, sempre più fragili, sempre con una maggiore perdita di senso della vita, busseranno alle nostre porte. Sono loro, le nuove pietre di scarto, di cui prenderci cura. E quindi, probabilmente, il lavoro che spetta tutti noi è quello di trovare senso e testimoniarlo..
È una sfida importante quella che ci attende, soprattutto in una società multietnica che, essendo schiava della paura, diventa ogni giorno più razzista o sempre più disillusa: non c’è niente da fare.
Cito le parole di Papa Francesco: “non bisogna cedere alla paura, al disincanto, allo scoraggiamento. È importante promuovere e curare una formazione qualificata che crei persone capaci di scendere nella notte senza essere invasi dal buio e perdersi; capaci di ascoltare l’illusione di tanti senza lasciarsi sedurre; capaci di toccare la disintegrazione altrui senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità”. E poi ancora: “farsi carico dei poveri nella consapevolezza che separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande. E abbassarsi senza nulla trattenere è la via per quella altezza che il Vangelo chiama carità e che la gioia più grande si gusta nella fraternità vissuta”.
Questa idea di fraternità vissuta mi rimanda al mio, al nostro vissuto di Comunità.
Comunità per me non significa solo una struttura sanitaria specialistica, non solo una struttura in cui curare patologie, ma una casa in cui fratelli accompagnano fratelli in una strada faticosa di cambiamento comune. Partendo proprio dalla filosofia di base delle nostre comunità, nel mio caso dall’impegno antropologico di Progetto Uomo, siamo stati in tutti questi anni e vogliamo continuare ad esserlo, il segno concreto di una fraternità che sceglie la relazione, la solidarietà, la giustizia, l’amicizia, la liberazione e la cittadinanza. Nelle nostre comunità, i “rifiuti umani” che bussano sono ricondotti all’interno di una relazione in cui lo specchiarsi e il rispecchiarsi ricostruisca faticosamente l’ identità attraverso il Noi e dona anche a noi operatori ed educatori la possibilità di sentirci parte di un tutto.
Stranamente, come a partire dalle dipendenze patologiche, è possibile leggere la post modernità, così, a partire dalla resistenza, anzi dalla resilienza delle comunità, è possibile costruire quelle comunità di intenti che segnano profeticamente il nuovo corso del dopo post-modernità. Il “non ancora” pervade il nostro pensiero socio-politico e costruisce la speranza verso cui non solo per noi, gente che nelle comunità terapeutiche vive, ma per tutti possa essere un segno, un percorso, un cammino per ritrovare valori smarriti: la solidarietà, la fraternità, la compassione e quel senso di carità che non può mai essere separato dalla giustizia, carità e giustizia sono indivisibili.
La Chiesa, a cui papa Francesco ha dato il nuovo impulso della strada, dell’incontro con l’altro, “la Chiesa in uscita”, ci trova già formati in questo compito, ma bisognosi sempre di essere incoraggiati, valorizzati, sostenuti e accompagnati. Non novità nei progetti terapeutici, ma riaffermazione puntuale, quotidiana, faticosa, della centralità della persona. Arricchiti, non solo da conoscenze scientifiche, ma soprattutto da esperienze sul campo e dalle mani tese che si sono sporcate del fango in cui l’altro è caduto.
Da questa mano tesa siamo stati educati, corretti ed aiutati a crescere. Perché l’alto valore della relazione umana non è la superiorità ma la reciprocità.
Se dovessi scrivere le parole chiave che le ct terapeutiche hanno nel loro zaino, la prima sarebbe NOI, la seconda NOI solidali, la terza NOI solidalmente reciproci verso il comune cammino della ricerca di un senso . Anche nella cronicità, nella comorbilità, nelle pluri ricadute, anche lì vediamo l’Uomo e al posto dell’ “oramai” scriviamo un “Non ancora”… “pieno di speranza”, ma siamo anche serenamente consapevoli e rispettosi della propria e dell’altrui fragilità. È proprio il terreno della fragilità quel terreno sacro che ci impone di toglierci i sandali.
Sono convinto che, se vogliamo veramente interpretare la parola e l’azione di Gesù testimoniate nel Vangelo e se vogliamo essere alla sua sequela, dobbiamo smettere di predefinire, di pre-eleggere gli uomini e le donne verso i quali vogliamo andare. Sì, perché noi in qualche modo continuiamo a farci una domanda sbagliata, anche nell’evangelizzazione e nel servizio della carità che è a essa inclusivo: chi è il mio prossimo?Questa è la domanda sbagliata che nel vangelo secondo Luca risuona, rivolta a Gesù. E oggi, in parallelo, le domande sbagliate sono: Chi sono i poveri? Chi sono i bisognosi? Quali sono le periferie esistenziali?
Sappiamo bene che Gesù risponde a questa domanda capovolgendola in: chi si è fatto prossimo?, perché il prossimo è colui che io decido di incontrare. Questa precisazione di Gesù è decisiva. Se uno si immette nella logica del ricercare chi è il prossimo, sbaglia, perché finirà per prestabilire chi vuole incontrare, finirà per decidere lui il bisogno del prossimo, mentre la necessità autentica è quella di farsi, di rendersi prossimo a chiunque si incontri, a ogni uomo o donna che ci passa accanto.
Quanto è vera e quotidiana questa affermazione nel nostro impegno nelle comunità terapeutiche! Non scegliamo e non possiamo scegliere, l’umanità che bussa alle nostre porte, i bisogni espressi o nascosti, le storie da incontrare. Non c’è selezione ma l’opportunità di una scoperta. Ma una vera scoperta presuppone occhi nuovi, impone la decisione della prossimità verso l’altro, non importa chi lui o lei sia; non dobbiamo avvicinarci all’altro perché è nel bisogno, ma l’altro deve essere reso prossimo in quanto uomo o donna, fratello o sorella in umanità . Nell’incontro poi conosceremo il suo eventuale bisogno: solo così si può fare un cammino che umanizza chi incontriamo e noi stessi. Nessuno può percorrere il lungo e accidentato processo di umanizzazione senza la relazione con l’altro.
Così, in presenza dell’altro che suscita in me disorientamento, devo convertire lo sguardo e scoprire, nel volto del diverso, la bellezza della creatura di Dio, fatta a sua immagine, lo splendore di colui per amore del quale Gesù ha donato il suo corpo e il suo sangue. Quando tale scoperta accade la paura scompare. Penso a Mosè che, avvicinandosi al monte di Dio, si sente dire da Dio “Togliti i sandali … perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”(Es 3,5). Togliersi i sandali, non è forse l’invito di Dio oggi a deporre ogni pregiudizio, ogni diffidenza, ogni stereotipo sul diverso, ogni scorza che ci imprigiona e ci isola, ogni sovrastruttura mentale e ideologica?
L’altro è terra santa. Avvicinati a lui con delicatezza, con i tuoi passi nudi, con devozione. E questo, in Comunità terapeutica, vale per tutti quanti vi operano, educatori e volontari, preti o medici. Vale per i cristiani così come per chiunque altro sia portatore dei valori dell’Umanità.
Il roveto ardente non è solo lassù, sulla cima dell’Oreb: c’è un roveto ardente in ogni essere umano, in ogni periferia dell’esistenza, un roveto che arde e non si consuma, un roveto davanti al quale occorre davvero denudarsi i piedi, togliersi i sandali e ciò che essi simboleggiano: la rinuncia ad ogni forma di dominio e di supremazia.
Siamo chiamati cioè a entrare nella Terra Santa della relazione a piedi nudi. Occorre nudità di piedi e di anima, delicatezza e massimo rispetto per ascoltare l’altro nella sua diversità e unicità. Per ascoltarne il grido sommerso. Occorre entrare a piedi nudi come sui carboni ardenti nel mondo interiore dell’altro. È questo il senso dell’accoglienza nelle nostre comunità; è questa, forse, la più marcata impronta evangelica del nostro operare. È una nuova visione anche del verbo accogliere, verbo caro a tutti noi cristiani e mission operativa per tutti coloro che lavorano nelle comunità. L’immagine più comune dell’accogliere ci rimanda il gesto di qualcuno, fermo nella sua casa o nella sua terra, che a braccia aperte, dà il benvenuto a uno straniero, ad un passante, a un lontano. Bello, ma ancora non sufficiente. Forse non è tutto quello che chiede il Vangelo. Perché quella “Strada facendo”, ci invita a non attendere ma ci spinge ad andare in cerca, incontrare l’altro sulla “sua” strada, non aspettare che arrivi, è movimento più che attesa.
L’altro è da conoscere nella sua storia, nei suoi percorsi, nelle sue fragilità che hanno provocato ferite e nelle sue speranze. Lo stile nuovo è proprio quell’avvicinarsi a lui con altri occhi, oltre la prima impressione o il primo contatto, con occhi “contemplativi” e con cuore sgombro o, come dice la beatitudine, con “viscere di madre”, “beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt5,7), sentendo e guardando l’altro con l’antenna della mia fragilità, della personale povertà di cui faccio quotidianamente esperienza.
Occorre che l’incontro sia uno spazio di libertà per poter diventare un momento di comunione, un incontro di cuore a cuore. Perché è nel cuore che si vive il mistero della comunione mediante il dono reciproco.
Questo è forse quanto di più prezioso, il nostro essere Comunità terapeutica e, allo stesso tempo, comunità cristiana, può donare, come icona, a tutta la Chiesa.
Colui che si presenta alle porte delle nostre comunità non è una cifra, una retta, un caso, una notizia, un piede sporco. È il volto di un figlio, di una figlia, che aspetta un bacio, un abbraccio, un’attenzione espressa con delicatezza, con una devozione simile a quella di Mosè nel togliersi i sandali e avvicinarsi all’Oreb.
Prima di ogni cosa, di ogni teorico valore, di ogni alto ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie: non i poveri generici, ma coloro che incontro; non i malati ma i volti segnati dal dolore di ciascuno di essi; non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi si incontra sul cammino.
Proprio come ha fatto Gesù: egli incontrava uomini e donne, sovente anonimi. Persone che Gesù vede, guarda nel suo vivere quotidiano, nel suo camminare per le vie della sua terra. E proprio da questo vedere, guardare, nasce la prossimità: Gesù si fa vicino o accetta che l’altro si faccia vicino a lui e, ascoltandolo, volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano, conosce la precisa situazione di bisogno, di sofferenza in cui l’altro si trova.
A volte incontra un malato nel corpo, altre volte un malato nella mente, altre volte un malato nello spirito, altre volte un peccatore .. In ogni caso, Gesù vuole incontrare l’altro e si interessa alla sofferenza dell’altro e non al suo eventuale peccato. La periferia spirituale o esistenziale in cui l’altro abita è scoperta da Gesù nell’incontro, non da lui prestabilita. E Gesù lo dice: è venuto per tutti i malati, per tutti quelli che non si sentono giusti ma peccatori.
E non ci sono giusti, e nemmeno noi lo siamo, in questa strana periferia che abito e che molti chiamano tossicodipendenza. Tutti peccatori o meglio, tutti donne e uomini fragili, feriti, smarriti.
La Chiesa è chiamata, oggi come quarant’anni fa, a prendere l’iniziativa, a farsi carico e sostenere, a ridare linfa e vigore al variegato mondo dell’accoglienza all’altro, senza dimenticare la sua funzione profetica, senza limitarsi al fare. Dobbiamo accogliere e nello stesso tempo reclamare giustizia e diritti, affermare con tutta la forza che ci viene dal Vangelo, la necessità che la politica e l’economia siano solo un mezzo per il bene comune, per la costruzione della città dell’uomo. C’è bisogno di una Chiesa che sia autentica testimone di Carità in un nuovo mondo dominato dall’interesse e dal tornaconto; una Chiesa fedele al Vangelo.
In questa Chiesa, e con questa Chiesa, le Comunità che si inspirano ai valori evangelici intendono camminare. La solitudine che la droga genera non è solo la solitudine di chi la usa, ma spesso è la solitudine di chi se ne occupa, degli operatori, dei volontari, dei sacerdoti. Sono periferie scomode le nostre, diverse da altre che pongono forse meno interrogativi, dove il confine tra il bene ed il male è netto ed inconfondibile. Ancora oggi lottiamo faticosamente contro lo stigma che il drogato porta con sé, di una povertà che si è voluto appiccicare addosso, e per questo meno meritevole di accoglienza e sostegno. Uno stigma che purtroppo non è assente neanche nelle nostre diocesi, nelle nostre parrocchie. Ma è proprio lì che siamo chiamati ad operare “non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc. 2,17). Per raccogliere il grido di disperazione di chi è solo nelle pieghe nebulose delle nostre città, senza giudicare, senza condannare, accogliendo con semplicità e gioia il dono della vita in ogni uomo e di ogni donna, nessuno escluso.
Don Mazzolari scrive una frase straordinaria: tutto è speranza perché tutto è fatica. Perché gli unici cambiamenti che danno gioia sono quelli che si effettuano in salita. Finché c’è fatica c’è speranza.
Ma per fare questo è necessario educare ed educarci al coraggio di questa avventura, alla ricerca comune della “Bellezza che salverà il mondo”, che ridà il senso perduto, che sfuma le nubi all’orizzonte e fa intravedere l’arcobaleno.
Coraggio e senso, questo dobbiamo ricercare e donare, ai tossicodipendenti così come al mondo che attonito osserva: “tu che m’ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria”…è questa l’ultima invocazione aperta alla speranza che chiude il Cantico di De Andrè, ed è questo l’alfabeto da apprendere ed insegnare. È il momento del cammino più che delle parole.
Non è possibile una comunità senza anima, e non c’è anima che non abbia fame di infinito ed assoluto. È allora tempo, non più rimandabile, di farci costruttori di un nuovo umanesimo integrale. Non solo voglia di comunità, ma voglia di umanità… e la nostalgia si trasforma in speranza.
Ricostruire la speranza è possibile, la tocchiamo con mano tutti i giorni, partendo proprio dai volti dei nostri ragazzi/e e dai volti di tutti coloro che fanno fatica. Sono loro che ci fanno sperare: sono i poveri, sono gli ultimi, sono quelli che sono alla ricerca di un senso e di un significato. Perché sono loro ad offrirci i punti di riferimento del nostro impegno, sono loro che ci offrono le coordinate etiche, sociali, politiche del nostro agire. Ed è anche il sogno di una chiesa che è sempre aperta e che sempre sa accogliere. Una porta che si apre a chiunque e una porta che chiunque può sospingere.