Crescere è la nostra vera ragione di vita (…). Oppure moriremo condizionati ed impotenti, profughi senza casa nel nostro stesso mondo” (Carkhuff).

Oggi, gli interventi educativi, la medicina e la farmacopea, pur con differenti approcci, salvano i corpi, curano il malessere e sedano le paure sociali… tanto che il disagio e alcune sue manifestazioni, come la tossicodipendenza, sono entrati gradualmente a far parte del tessuto connettivo della società. Le ideologie poi, e non solo esse, mediano una concezione parziale della salute e di conseguenza del prendersi cura della salute dell’altro, puntando alla salvaguardia della salute del corpo… soprattutto dei cosiddetti “sani” e “normali”. Questa ottica si spiega, appunto, con un concetto riduttivo del “prendersi cura”, legato alla salvaguardia sia del male corporale sia di una maggioranza del corpo sociale. Laddove si dovrebbe riflettere sulla molteplicità e profondità del dettame etico del “prendersi cura dell’altro” che non può eludere la salvaguardia della “qualità della vita” per tutti.

Le dipendenze contrappuntano la vulnerabilità, segnalando la nostra incessante ricerca di completezza

La constatazione di fondo rimanda ad altri due concetti: la vulnerabilità e la responsabilità della persona, nel quadro delle possibilità di fruire, appunto, di una qualità di vita. L’uomo è per sua essenza debole e vulnerabile nel corpo e nel profondo del suo essere. Malattia, rischio e sofferenza compongono il suo situarsi nel reale dalla nascita in poi. E la società, da sempre, ha inventato modi sia per strumentalizzare tali vulnerabilità, si pensi alla pubblicità , o per curarle, si pensi alla medicina. Le dipendenze contrappuntano la vulnerabilità, segnalando la nostra incessante ricerca di completezza, di soddisfazione o di consolazione, a fronte di un equilibrio esistenziale turbato continuamente dai sussulti del vivere, talvolta confusa con la ricerca della libertà. D’altronde nasciamo dipendenti; per diventare un individuo, l’uomo deve prima transitare attraverso un’altra persona. Un transito da non ridurre al solo meccanismo del parto, ma da estendere per un tempo molto più lungo e che comporta il distacco fisico dalla madre, dalla quale il feto dipendeva totalmente. Il neonato, poi, nel diventare adulto si scontrerà sempre di più con limiti imposti alla sua libertà; infine, come Prometeo, si scoprirà potente ma anche vulnerabile. Convivere con le molteplici manifestazioni della vulnerabilità ed evitare che diventino in taluni casi impedimenti al crescere, senza per altro colludere con essa o strumentalizzarla, è uno dei traguardi ineludibili per poter anelare fronti di libertà. Le dipendenze patologiche possono essere assunte a icona di vulnerabilità irrisolte, radicate nella storia della persona e cronicizzate nel disagio laddove la libertà è stata barattata con la possibilità di un immediato riscatto o soddisfazione per colmare un vuoto. E si opera una scelta, certamente con ampi margini di condizionamento, ma in libertà, come Icaro che sfida il vuoto con l’ambizione di volare, ignorando consapevolmente che la natura dell’uomo è nettamente diversa da quella di un volatile. La necessità o il desiderio tendono continuamente a violare il limite laddove proprio il limite è la misura della libertà.  Allora la vulnerabilità eletta a stile di vita diventa frattura, menomazione cioè perdita, transitoria o permanente, di possibilità che si colma, in un ciclo autoperpetuantesi, di disagi, con esiti talvolta fatali.     In tal senso, le dipendenze patologiche rappresentano l’ultima frontiera di una colossale truffa psicologica che ha spacciato la sostanza per libertà. E il meccanismo da devitalizzare per tornare liberi si cela dietro al sintomo, incastonato nella persona. Si tratta di capire quale funzione esplica la dipendenza nella personalità e nella vita del soggetto ovvero con il trattamento cosa si scardina, cosa si sostituisce, cosa si restituisce, per  “accettare la vita non libero da tutte le dipendenze, ma capace di accettarne più di una e nessuna totalmente come quella vissuta con l’oggetto da cui si dipendeva. La libertà è nel dipendere da più oggetti, più relazioni interscambiabili tra di loro” (Mammana).  Libertà di dipendere, cioè di accettare la propria vulnerabilità e capacità di operare delle scelte e non indossare delle protesi esistenziali; coscienti e responsabili delle conseguenze e delle possibilità; coraggiosi nei confronti dei limiti e delle frustrazioni. Ciò esige un particolare prendersi cura di se stessi e dell’altro. Prendersi cura del disagio, infatti, non è renderlo invisibile o trasformare la vulnerabilità in una nicchia sociale, è approdare anche al concetto di responsabilità. Responsabilità sia del singolo sia della società nei confronti del disagio e delle possibilità di “problem solving” da attuare, almeno per evitare cronicizzazioni e stigmatizzazioni che producono derive sociali. Una prospettiva etica esige di non colludere o mimetizzare il disagio, tanto meno di ridurre in categorie il danno che ne deriva per il singolo e la società. Vulnerabilità non significa necessariamente assenza di responsabilità o indifferenza o assoluzione. Un atteggiamento etico implica talvolta l’assumersi le responsabilità di coloro che al momento non sono in grado di rispondere di se stessi, aiutandoli a compiere delle scelte che li riscatti dal disagio, secondo un’ottica educativa. Prendersi cura dell’altro e della sua vulnerabilità affinché egli possa riproporsi nella sua dignità personale e arricchirsi di nuove prospettive, in quanto salvare il corpo o salvare la vita solo da uno stato di prigionia – quale il disagio o la devianza – non è sufficiente ai fini di una crescita etica della persona e della società. La qualità di un percorso rieducativo consiste, non tanto nella valutazione statistica dei risultati o del sistema, bensì nel come verrà conservata quella vita salvata, con quale stile di vita verrà rielaborata la vulnerabilità affinché ogni esperienza della persona diventi seme vitale. Infatti, chi confonde, sovente per fini ideologici, la vulnerabilità con la libertà, in fondo propone diverse categorie di uomo scandite dal grado di condizionamento in cui gli si permette – o lo si costringe – di vivere. Si possono accettare dei compromessi in itinere, a livello terapeutico o rieducativo secondo il grado di difficoltà che la persona incontra nel suo uscire dalla dipendenza, ma non nei confronti dell’obiettivo finale cioè il garantire generazioni vitali per il futuro dell’uomo. Garantire generazioni vitali implica la capacità di entrare nell’intimità della persona per restituirle fecondità: offrire una parola liberatrice. In conclusione, possiamo intendere il “prendersi cura” quale progetto di crescita, dove il soggetto può ritrovare se stesso e il proprio situarsi nel mondo, mutando atteggiamenti, comportamenti e sentimenti … fra Thanatos a Eros.

di Nicolò Pisanu