Sembra che il Governo abbia aperto gli occhi sui veri problemi della Giustizia penale e, di conseguenza, sul sovraffollamento carcerario. Sì, perché era difficile poter disgiungere i due problemi ed affrontarli con angolazioni differenti.

Ci aveva provato sommessamente il Ministro Severino ma il tempo è stato tiranno ed ancor più lo è stata la nostra instabilità politica.

Onore, dunque, al Ministro Cancellieri, sulla cui lucidità non nutrivo alcun dubbio, nel momento in cui ha deciso di dare lustro all’istituto dei lavori di pubblica utilità come forma di sanzione penale, ponendo fortemente in discussione quella sensazione di pericolosità ed insicurezza che aveva permeato le legislature trascorse.

Mi chiedo se sia venuto meno il timore del cittadino o abbia prevalso la logica della concezione rieducativa della pena, sancita dalla nostra carta costituzionale. Forse solo il bisogno di mettere un freno al meccanismo della porta girevole attraverso la costruzione di pene alternative, di gran lunga più economiche.

Da quanto emerge sembra ci sia un sostanziale ritocco alla legge Simeone-Saraceni ove la pena residua, o inflitta, non doveva superare i tre anni per consentire al detenuto di rappresentare al tribunale di Sorveglianza alternative significative e che subiva un sorprendente affondo se coniugato con la famigerata legge “ex Cirielli”

Ora questo tetto si alzerebbe a quattro anni e risulterebbe fruibile anche dai recidivi, categoria ampiamente dilagante e tale da vanificare la possibilità di percorsi alternativi alla pena.

Ma interessante risulta essere il provvedimento prospettato dal Ministro della Giustizia laddove prende in considerazione i tossicodipendenti ai quali sembra essere riservata la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità anche in relazione a condanne per reati non strettamente legati al consumo di stupefacenti.

Questa prospettiva è sicuramente interessante ma occorrerà vedere bene come la normativa intenderà concepirne la formulazione, per evitare che resti lettera morta come la previsione, già vigente, dettata dall’art. 73 c. 5 bis del DPR 309/90.

La richiesta di applicazione di questa tipologia di pena spiazza costantemente i giudici di merito, un po’ per l’occasionalità di questa scelta difensiva, un po’ per la difficoltà di mettere in campo sistemi di controllo differenziato che, da un lato, garantisca la sicurezza  demandata alle Forze dell’Ordine, dall’altro evidenzi con forza il carattere socializzante attraverso l’intervento degli Uffici di esecuzione penale esterna.

Saranno questi ultimi, dunque, ad intervenire e trasformare, fin dalla loro applicazione, le sentenze di condanna in percorsi educativi.

Il mio entusiasmo, legato senza dubbio alla condivisione di concezioni sanzionatorie altamente illuminate, e da tempo auspicate, si ferma di fronte alla realtà dei servizi e degli organici U.E.P.E  (Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna) attualmente in forza molto ridotti.

Assisteremo alla solita storia del “vorrei ma non posso” che caratterizza da sempre il sistema giudiziario?

Speriamo di no.

di avv. Marco Cafiero