Quanta indignazione per la storia dell’inchino in processione ad Oppido! Cosa ci inorridisce?
A chi si sono inchinati i portatori e non certo la Madonna? Si sono inchinati ad un piccolo boss ottantenne o ad un potere simbolo? Ben conosciamo in questa terra l’inchino al potere di tutti gli indignati ad orologeria: uomini che si prostrano al potere politico, massonico, economico, ‘ndranghetista.
Ad ogni potere che, quotidianamente, in Calabria, schiaccia ogni seme di vera democrazia, perché da sempre si vive in un sistema feudale: feudatari, vassalli, valvassori e tanti, troppi, servi della gleba. L’uomo forte, il Deus ex machina, a lui devi rivolgerti per trovare un lavoro o un letto in ospedale, per vedere i tuoi bisogni rispettati o per sopravvivere. A lui, o a gente come lui, diventi debitore: del tuo rispetto, del tuo voto, del tuo silenzio, del tuo inchino. Nella mia terra si impara, fin da piccoli, che c’è un potere “ altro” a cui consegnare la propria dignità.
Nella mia comunità aiutiamo ragazzi a liberarsi dal peso delle sostanze ma ben più difficile è aiutarli ad uscire dai circuiti della criminalità organizzata e questo ci ha esposto e ci espone, spesso, a rischi e a minacce.
Un giorno ero in Comunità con i miei ragazzi. Si stava in cerchio ed ognuno raccontava agli altri la propria angoscia, la propria sofferenza, la propria fatica. Un ragazzo, giunto il suo turno, si alzò, e senza dire nulla, prese un piatto di coccio e lo lasciò cadere per terra. Il piatto ovviamente si fece in mille pezzi. Alla mia domanda circa il significato del gesto, egli mi rispose che lui vedeva così la sua vita, distrutta in mille cocci.
Quante volte noi abbiamo letto così la nostra terra. Terra di contraddizioni, di ferite, ma soprattutto di divisioni, anche tra chi dovrebbe collaborare verso obiettivi comuni di cambiamento.
Dopo la spiegazione del gesto il ragazzo si chinò, raccolse un frammento, lo strinse nella mano e scoppiò in lacrime. Anche stavolta chiesi spiegazioni. Mi rispose che avvertiva una strana sensazione: quel frammento, dapprima freddo ed estraneo, nella sua mano prendeva, a poco a poco, calore. E’ bello, mi disse, sentirsi parte di qualcosa di più grande, di qualcosa che riesca a raccogliere i cocci della nostra vita e renda ciascuno di essi degno di essere vissuto. Si riferiva alla Comunità, agli altri ragazzi, al sostegno reciproco in grado di rimarginare ferite e aprire una strada verso il cambiamento.
Quel ragazzo ci stava dicendo che è possibile sconfiggere i poteri forti, la ‘ndrangheta, le massonerie deviate, stringendo i cocci della nostra fragilità e tenendoci per mano!
Per unire le nostre mani non servono gli slogan, gli accordi sotto banco, la ricerca smodata e sregolata del consenso senza scrupoli o limiti di sorta. Serve la passione per la vita e la passione per l’altro.
In questo senso, tutti noi, quelli che provano a spendersi per un futuro migliore, partendo dagli ultimi, siamo chiamati ad un segnale forte di unione e condivisione, al di là delle diversità e degli interessi di cortile. Ed in questo, credo che dobbiamo pretendere da chi ci governa, senza se e senza ma, una scelta di campo e dalla nostra Chiesa una scelta di testimonianza e profezia.
La Chiesa che testimonia il Cristo non si inchina davanti a uomini “venerabili”, davanti a tradizioni che a volte sono vuote di significato, davanti a nessun potere umano, ma solo davanti a Dio e a chi soffre. Il resto è idolatria.
La lotta alle mafie deve essere una priorità soprattutto per la politica, che deve ritrovare e ricostruire il legame che deve intercorrere tra etica e politica.
Su questo terreno si gioca una scommessa troppo importante non solo nella lotta alle mafie ed alla criminalità organizzata, ma per lo stesso sviluppo della nostra terra, una scommessa che non può dipendere da distinzioni o divisioni di colore politico o sociale. Ma prima di tutto credo che dobbiamo credere, o tornare a credere, nel cambiamento. Ci hanno quasi convinto che ormai non è possibile tornare indietro, non è più possibile cambiare. Ci hanno ridotto al silenzio, in maniera subdola, senza violenza, semplicemente facendoci intendere che il male è talmente grande da essere invincibile, uccidendo lentamente nei nostri cuori la speranza.
Speranza, invece, che può ripartire se le nostre parole saranno fecondate dalla coerenza, dalla condivisione, dall’ impegno e dalla fame di giustizia. Tutto questo è possibile!
C’è bisogno, più che mai, di una speranza. Di una speranza che significhi diritti ed opportunità. Parlo della dimensione della speranza che parte dai dati concreti, dalla dimensione della giustizia, dall’affermazione dei diritti. Questo aspetto della speranza è l’ossigeno indispensabile per non farsi piegare dalla fatica, per non arrendersi alle difficoltà, senza cedimenti dinanzi a coloro che credono di seminare paura con la violenza. Se siamo insieme, né la preoccupazione, né la paura, né le minacce possono zittire la nostra voce, o fermare il nostro cammino.
Costruire speranza è faticoso ma ha una valenza politica, ha una relazione con il territorio in cui ognuno vive. La legalità e la solidarietà sono solo strumenti, il valore è la giustizia sociale. E ci si arriva con coerenza, senza barare, senza dare in appalto a nessuno la propria coscienza, con dignità e impegno. Le mani pulite, se sono in tasca, non servono a niente.
È il Vangelo che ce lo chiede, ci dice di scendere in strada, di uscire dalle sacrestie, di stare nel mondo senza essere del mondo, di sporcarci le mani, con umiltà e coraggio, nel nome della speranza.
Questa speranza e questa fede possono donare alla Chiesa il coraggio di uscire dagli accampamenti tutte le volte che si attarda all’interno delle sue tende dove non giunge il grido dei poveri. E possono far rifiorire nel cuore la grande passione per l’uomo, apprendendo la geografia della sofferenza e la tenerezza verso tutti i bisognosi , anonimi personaggi che attendono la liberazione.