Chi mi conosce sa che non sono un tecnico, né tantomeno un medico o un professore. Sono un prete che, da tanti anni,  vive accanto a persone in difficoltà, vulnerabili, fragili. Ecco, sono, forse, un esperto di fragilità, ben consapevole della sua. Verrebbe quasi istintivo, parlando di persone fragili, pensare alle persone che bussano alle nostre porte per chiedere aiuto, alle fragilità quindi estreme, grandi, riconoscibili a distanza. Ma non è a loro che mi riferisco, non solo a loro.

Parlo della mia fragilità, prima di tutto,  quella di ogni persona che vive, lavora o semplicemente condivide un tratto di vita nelle nostre comunità; fragili come i nostri ragazzi che chiedono una mano per uscire dalle dipendenze, in modo diverso, ma con la stessa drammatica e umana profondità.

Non una contrapposizione tra “noi” e “loro”, non di una divisione tra assistenti ed assistiti, ma di un incontro, di tanti continui incontri di fragilità. Non casi da analizzare, ma incontri tra persone, strade da percorrere assieme. Ed è su questa idea di fragilità che vorrei riflettere.

Viviamo in un mondo di automi, in una Matrix tristemente reale. Quanti di voi hanno visto la trilogia di Matrix?

Un mondo in cui gli uomini si illudono di vivere vite normali e di intrecciare relazioni, mentre  il tutto è controllato da una intelligenza artificiale e gli uomini sono rinchiusi in gusci impenetrabili e non comunicanti tra loro dove vivono per intero le loro misere vite, senza poter o voler  uscirne mai. E, in questa Matrix, ogni uomo che per qualche verso ha un barlume di lucidità e comincia a rendersi conto ed a contestare, viene considerato come una “anomalia del sistema”, un qualcosa da eliminare al più presto.

Attenzione, però, il sistema non si preoccupa più di tanto delle anomalie, perché sa bene che, sino a quando restano isolate, non hanno alcuna possibilità di infettare il programma, “l’intelligenza” e il cinismo del potere. Nella finzione cinematografica, Matrix comincia a preoccuparsi quando il cosiddetto “eletto”, l’uomo nato per salvare tutti gli altri, si unisce ad un gruppo di contestatori e si organizza, solo allora si muove perché comprende che le anomalie, se multiple, sono pericolose e infettanti.

Credete che la realtà cinematografica di Matrix sia così lontana da quello che noi siamo costretti a vivere ogni giorno?

Ci hanno impacchettato e fornito una vita su misura facendoci credere che fosse vera, una vita fatta di rate,di mutui, di cose inutili passate per indispensabili, di relazioni virtuali. Persino l’amore nella nostra era è cibernetico. Anche le cose negative alla fine ci vengono propinate come positive e dove non è possibile arrivare a tanto, semplicemente ci vengono nascoste, abbellite, ammortizzate, o presentate come la pillola necessaria per la guarigione.

Per cui, più ti adegui, più uccidi la parte migliore di te ogni giorno, più riesci a “sopravvivere”.

E’ qui vengo al punto che più mi sta a cuore.

Io non credo si possa essere realmente liberi da soli. Quanti di noi conosciamo la radice del termine “fiducia?” Proviene da un termine latino, fides. Ma la cosa più strana è il significato di fides: corda.

Perché dalla corda deriva la fiducia? Perché la corda lega, così come i rapporti di fiducia stringono insieme le persone e nessuno di noi può fare a meno delle relazioni umane.

Nella Matrix moderna, in una società dell’ovvio, dove ogni cosa sembra inventata allo scopo di rassicurare, di stimolare l’ottimismo,  di indurre alla volontà di consumo, in realtà, ciò che viene consumato, sfibrato e poi buttato come scarto, è proprio l’uomo, quell’uomo che ha ceduto alla paura di perdere un “benessere” che crede autentico e necessario, ed invece ha indossato una povera e misera maschera.

Difendiamo un benessere fatto di cose, di oggetti, di prodotti di cui nemmeno si conosceva l’esistenza e che, “lanciati” sul mercato, sono divenuti assolutamente indispensabili. Oggetti che dopo l’acquisto perdono l’aurea della necessità e che non colmano la nostra smania di possedere, perché quella è un pozzo senza fondo.  Ciò che è peggio è che sono proprio le “cose” il metro tra gli  inclusi e gli esclusi, che rappresentano un salvacondotto, un indicatore di status, l’unico passaporto per entrare in questo mondo mercificato, in questo falso paese dei balocchi, in questo regno del nulla.  Ecco quindi che la paura dell’altro rappresenta in realtà la paura che ci venga tolta la nostra sicurezza, la nostra certezza di restare tra i pochi eletti. Già la paura …  la paura ha la stessa radice latina di pavimento, così come terrore ha la stessa radice di terra. Abbiamo paura di restare schiacciati.

Se ci pensiamo un attimo è proprio così; aver paura significa esattamente questo: appiattimento verso il basso, camminare rasoterra, restare immobili, avvinghiati alle proprie sicurezze;

Ed in questo clima di paura abbiamo smarrito persino la circolarità del tempo, che non è più figlio del passato e gravido di futuro, ma è solo un piatto, monotono, costante presente.

L’incontro con l’altro è invece l’esatto opposto di sicurezza. Incontrare l’altro significa essere pronti a mettere in discussione una parte di sé per fare spazio a chi mi sta di fronte.

L’incontro con l’altro ci apre al mondo delle possibilità, la possibilità di vivere senza lasciarsi vivere.  Ricordiamo che, come pensava Sartre, l’uomo è condannato alla scelta. La scelta è il prezzo della nostra libertà che, in un mondo legato, è strettamente legato alla responsabilità. Responsabilità verso se stessi, verso l’altro da sé, verso il creato a noi affidato. Ed ecco che, visto così, l’altro non è più una semplice opzione ma una necessità irrinunciabile.

Avete mai notato che non esiste il silenzio assoluto? Anche quando riteniamo di essere in un luogo totalmente silenzioso, a poco a poco, le nostre orecchie si adattano e ricercano con maggiore attenzione i suoni di un qualcosa vicino. Ed ecco che un grillo, il rumore del vento, uno stormire lontano, ci ridonano la sensazione di essere comunque parte di un insieme. E quando pure ci tappiamo le orecchie, quando ci precludiamo ogni possibilità di udire, resta sempre il battito del nostro cuore. A poco a poco, nel silenzio, iniziamo a contare i battiti, sentiamo il canto del nostro cuore, un canto che sembra cercare altri battiti intorno, altri cuori che battano con lui.

Ma per ascoltare veramente i battiti del proprio cuore occorre esercitare la propria libertà, occorre scegliere.

Ecco perché è necessario tornare all’imperfetto modo reale e non smarrirsi nelle perfezioni artificiose di Matrix. Se ci hanno detto che la povertà è lontana da noi, se qualcuno ci ha raccontato che i problemi sociali non ci potranno mai toccare, che noi apparteniamo alla eletta schiera degli inclusi e mai niente ci potrà escludere, che l’emarginazione è un problema degli immigrati e dei tossici, che l’ottimismo è il sale della vita, ebbene questo qualcuno vuole venderci l’ennesimo prodotto.

E allora  quale è l’unica certezza su cui fare affidamento? Paradossalmente proprio quella che sembra più in pericolo, più difficile da difendere. L’unica che, nonostante i soldi ed il potere, nessuno potrà mai comprare senza il nostro assenso: La nostra libertà, che è intrecciata alla responsabilità.

Racconta une delle più belle favole di Fedro che un cervo, dopo aver bevuto ad una fonte, stette ad ammirare la sua immagine nello specchio dell’acqua. Lodava in estasi le sue corna eleganti e disprezzava le gambe, troppo gracili e sottili. Spaventato improvvisamente dalle grida di caccia, prese a fuggire per i campi e con una rapida corsa riuscì a disperdere i cani.

Ecco una selva accogliere il fuggiasco. Ma le corna gli si impigliano nei rami, i cani gli piombano addosso e lo straziano a forza di morsi.

Allora, in punto di morte, si dice che così abbia parlato: “O me infelice! Soltanto ora capisco come sia utile ciò che disprezzavo e quali disgrazie mi abbiano procurato le cose che lodavo”. Ciò che talvolta disprezziamo maggiormente in noi, le nostre piccole debolezze, in realtà rappresentano le gambe magre e veloci del cervo, mentre le cose che riteniamo belle perché comunemente accettate, sono spesso la nostra zavorra, i pesi che ci impediscono di volare. Nessuno può essere realmente sé stesso se non ha imparato ad abbracciare con delicatezza ed amore la propria fragilità. In questo senso, esattamente al contrario di quanto la nostra Matrix vorrebbe imporci, la debolezza di ogni uomo e di ogni donna diviene valore, capacità di cogliere i propri limiti, e soprattutto di specchiare la propria fragilità nella fragilità dell’altro. Chi non ha paura della propria debolezza non ha paura dell’altro. Gli steccati tra uomini nascono proprio perché ogni altro è misura di me stesso: se non voglio vedere i miei limiti evito l’incontro con chi mi sta accanto.

Ed allora ecco le  parole chiave, le parole pesanti, da vivere, che volevo lasciarvi:  Libertà, Responsabilità, Fragilità.

Libertà per scegliere di stare insieme all’altro, Responsabilità per averne cura, Fragilità per accogliere se stesso nell’altro. Con l’augurio che ognuno di noi ne possa fare buon uso.

di Sac. Mimmo Battaglia – Presidente FICT