“Sono felice di essere qui. Felice perché ritrovo nelle parole di questa giornata, nel clima di quest’assemblea una parte di me, della mia storia, del mio sentire profondo. Certamente non una parte del passato ma del presente, anzi oserei dire del “futuro”. Perché Progetto Uomo è e resta anzitutto un “progetto”, il tentativo cioè di cercare con tutto se stessi di percorrere i sentieri dell’oltre, quelli che sanno di avvenire, quelli che indicano le nuove emergenze da affrontare, le situazioni inedite da comprendere, le richieste e gli appelli ancora inascoltati a cui rispondere. Gli anni in cui la filosofia di Progetto Uomo è nata erano anni di profonde trasformazioni, di sconfitte.
Quando Progetto Uomo ha mosso i primi passi, l’eroina era la grande diva, che si destreggiava indomita tra i dolori assurdi dei reduci dal Vietnam, sul palcoscenico del crollo delle utopie su cui tanti avevano scommesso un’intera esistenza, dinanzi al pubblico degli esclusi e dei marginali, resi tali da una crescita economica che non riguardava tutta la comunità sociale ma solo una sua parte. Questa diva con la sua danza mortifera pareva anestetizzare ogni dolore per poi lasciar cadere in un baratro ancor più grande coloro che per un attimo erano stati trasportati in un mondo diverso, finto, inesistente.
Oggi questa diva non è più l’unica protagonista del teatro fallace delle dipendenze. Altri attori, ballerini e musicisti sono giunti con la loro arte dal retrogusto di morte. Alcune di queste dipendenze hanno a che fare con le sostanze, che dalla cocaina alla cannabis passando per l’alcol, non hanno mai smesso di sedurre la vita di tanti uomini e donne, di tanti ragazzi e ragazze. Altre, invece, hanno indossato abiti davvero inediti. Vengono chiamate nuove dipendenze. E interessano un numero di persone in costante incremento, considerate da molti esperti vere e proprie malattie della post modernità. Dipendenze che sembrano crescere a dismisura sul terreno fertile dell’innovazione tecnologica e che rendono paradossalmente ancor più povera la vita di chi cade nelle loro ragnatele. Uno studioso delle nuove dipendenze, Griffiths, non a caso afferma che “la differenza tra un sano entusiasmo, sebbene eccessivo, e la dipendenza patologica è che i sani entusiasmi arricchiscono la vita, mentre le dipendenze la impoveriscono” (Griffiths, 2005). Quali sono queste dipendenze? Cosa le accomuna? Qual è il comune denominatore che mette insieme le dipendenze da sostanze, quella da gioco d’azzardo, le dipendenze tecnologiche, affettive, sessuale, da consumo? Non so darvi una risposta precisa, forse proprio perché Progetto Uomo mi ha insegnato più che a fornire le risposte ad abitare le domande, standoci dentro, con un’empatia smisurata, per comprendere nella propria carne cosa significhi il non essere più liberi perché schiavi di qualcosa che apparentemente ti afferra dall’esterno ma che, in verità, è scelta inconsapevolmente dall’interno più profondo.
Abitando la domanda, continuando a chiedermi ciò che accomuna il mondo purtroppo variegato delle dipendenze, non riesco a non rintracciare in ognuna di esse una grande povertà. Chi cade nelle dipendenze non solo diventa povero ma ci cade perché già povero: povero di relazioni, povero di senso, povero di significato, povero di quella cura educativa che avrebbe dovuto generare uomini e donne capaci di relazioni sane, di saper cercare un senso alto e nobile, di afferrare il significato più autentico e vero del vivere e dell’amare. Per questo credo che il tema che avete messo a fuoco oggi, qui a Firenze, è fondamentale per comprendere sul serio il fenomeno delle attuali forme di dipendenza, che rappresentano uno scenario assolutamente diverso e, in un certo senso, molto più complesso di quello in cui anche io, nell’ambito del mio servizio nelle comunità terapeutiche, ho mosso i primi passi. Sapete, quella “e” congiunzione che mette insieme nel sottotitolo del nostro incontro la parola “dipendenze” e “povertà educativa” potrebbe essere anche trasformata nel verbo essere, in una “è” con l’accento, o meglio in un “sono” che indica un legame identitario: le dipendenze “sono” povertà educativa. Perché conducono ad esse e da essa nascono.
Questa esperienza la tocco con mano ogni giorno a Napoli dove, sapete, non c’è “ufficialmente” Progetto Uomo ma c’è nel mio sguardo e nel mio cuore, e nello sguardo e nel cuore di tanti collaboratori, preti, laici, giovani e adulti che hanno sentito la necessità di prendersi cura di questa povertà educativa, di non girarsi dall’altra parte, dando vita a un processo lungo e faticoso ma necessario: un Patto Educativo.
La scia di sangue che non di rado attraversa la mia città, mietendo giovani vite uccise da altrettante giovani mani assassine, procurando terrore e angoscia a interi quartieri, strade, famiglie, non poteva passare inosservata. Il grido della città – l’anima della città, per usare un termine caro a un grande figlio di questa terra Giorgio La Pira – doveva e deve essere ascoltato. Ho iniziato ad avvertire la necessità di questo ascolto, ascolto da cui è nato il Patto proprio all’inizio del mio servizio di Vescovo a Napoli. Un pomeriggio, mentre percorrevo a piedi via Duomo, ho incontrato alcuni ragazzini che giocavano con delle pistole finte. Ma ciò che mi ha impressionato non è stato il gioco in sé ma l’imitazione realistica del linguaggio e dello stile camorristico, tale da lasciar intravedere che quella cultura non era loro estranea ma in qualche modo la respiravano, la assorbivano, probabilmente senza degli adulti capaci di essere per loro filtri sani, utili a preservarli dal male orientandoli verso il bene.
E da quel giorno quanti volti di bimbi, ragazzi, giovani ho incontrato! Storie ferite, ali spezzate prima ancora di spiccare il volo, vite segnate dall’assenza di un mondo adulto sano e accudente. Le visite, poi, agli istituti minorili, alle case famiglia, insieme agli incontri con gli operatori sociali e sanitari mi confermavano in una terribile premonizione: la maggior parte di quei bambini deprivati culturalmente, poveri da un punto di vista educativo, sarebbe poi incagliata in una qualche forma di dipendenza! Per questo, se è vero che le dipendenze sono il frutto anche e soprattutto della povertà educativa, è vero anche che l’unico antidoto e vaccino che può prevenirle e ridurle è la creazione di una “città educativa”, da costruire insieme mattone dopo mattone, promuovendo forme di accompagnamento, cura e partecipazione di ragazzi, giovani e famiglie, forme adeguate a contrastare il degrado umano conseguente alla condizione di emarginazione sociale, di povertà economica e morale.
In questo la profezia di Progetto Uomo mi ha guidato non solo nella lettura del problema ma nell’intuizione dell’unica soluzione possibile: rendere una città fatta di isole, di parti separate che si toccano senza mai incontrarsi, una “comunità”. Un processo arduo, tutto da costruire e per nulla breve ma al contempo essenziale, urgente. Perché spesso alla radice della povertà educativa vi è una comunità che dimentica di essere tale, che abdica, al suo ruolo, che cede troppo facilmente all’idolatria dell’individualismo, della competizione, dell’io dimenticando il “noi”, la sola forza capace di creare comunità e di non lasciare indietro nessuno.
Quando vivevo e operavo in una comunità, ho chiesto a una ragazza che da qualche tempo aveva concluso il percorso terapeutico se, ripensando al suo percorso comunitario, portava nel cuore qualche nostalgia. Mi ha risposto senza indugi: “don Mimmo, in Comunità ho avuto costantemente la consapevolezza di non essere mai sola, nei momenti in cui mi sono sentita sola, triste, scoraggiata, sbagliata… c’era sempre qualcuno che mi tendeva una mano, che mi offriva il suo aiuto… e, soprattutto, in comunità mi sono sentita libera… si, libera, perché ho potuto farmi vedere per quella che sono, senza finzioni, senza maschere, con le mie fragilità, con le mie bellezze… fuori non è così… mi devo difendere…mi devo aggrappare ai miei amici, ai valori in cui voglio ancora credere… ma non è facile, è una continua lotta…”. Capite? Relazioni, mani tese, aiuto offerto, liberi ma non soli. Questo è l’esatto contrario della povertà educativa e non solo è un passaggio necessario a guarire dalle dipendenze ma utile soprattutto anche a prevenirle. Vi immaginate se le nostre città divenissero tutto questo? Non è un’utopia. È possibile. Ad esempio, spesso credo abbiate sentito parlare della mia città come una città piena di disagi, di delinquenza. Nessun napoletano onesto può negarlo ma c’è un’altra cosa che nessuna persona onesta può negare: a Napoli – e sono certo questo vale per ogni città – il bene, gli uomini e le donne che operano il bene, che eroicamente si spendono per gli altri, che mettono su luoghi di vita e di speranza, sono di gran lunga più numerosi di quelli che seminano morte e vendono dolore. Ma il problema è che, mentre questi riescono a creare un vero e proprio sistema, spinti da un’indole comunitaria frutto del calcolo meschino e vigliacco, gli altri sembrano andare ognuno per conto proprio, senza creare un sistema a maglie strette, basato sulla cooperazione, capace di non lasciare indietro nessuno. Ecco, il Patto vuole creare questo “sistema di vita”, questa città educativa in cui nessuno viene lasciato indietro. Questo è il Patto Educativo. Questo è Progetto Uomo. E, perdonatemi se mi sono dilungato su una realtà specifica della mia comunità ma l’ho fatto non solo perché credo che la fatica del nostro cammino napoletano possa aiutare altri cammini ad essere meno faticosi, ma soprattutto perché è l’eredità che Progetto Uomo mi ha lasciato dentro e che per me è storia e allo stesso tempo profezia.
Quindi, coraggio Progetto Uomo, riscopri sempre il bisogno di essere e fare comunità, la necessità di aiutare le persone a rispecchiarsi nell’alterità, custodisci sempre la tua lucida lungimiranza che ti permette di allargare lo sguardo e aiutare coloro che incontri a riscoprirsi educatori.
Coraggio Progetto uomo, la tua storia racconta di liberazioni non solo dalla sostanza, ma da quelle catene invisibili che rendono schiavo il cuore imprigionandolo in una solitudine senza speranza!
Coraggio Progetto Uomo, continua la tua missione per salvare, sempre e comunque, l’umano nell’uomo, con le sole armi di uno sguardo sincero e accogliente, indulgente, onesto, capace di non giudicare ma di accarezzare le fragilità!
Coraggio Progetto Uomo, dinanzi alla complessità del tempo presente, così diverso da quello in cui sei nato e hai mosso i tuoi primi passi, hai ancora qualcosa da dire, hai ancora qualcosa da fare, nella logica del quotidiano, con il metodo discreto e laborioso che da sempre ti caratterizza, quel metodo che ti ha reso non certamente indispensabile ma sicuramente necessario, come è necessaria quella goccia di cui parlava Madre Teresa di Calcutta quando diceva che “ciò che facciamo è solo una goccia nell’oceano ma senza l’oceano avrebbe una goccia in meno”. Coraggio perché il sogno che puoi condividere è il sogno di piccole gocce capaci di salvare la solitudine in se e nell’altro, diventando oceano, diventando comunità.
Si, amici carissimi, la comunità è la nostra forza, anche quando apparentemente è una debolezza, perché magari costringe a rallentare il passo, ad aspettare l’altro, a camminare piano evitando di correre in avanti. La comunità è la nostra storia e la nostra profezia!
Ed è questa è la parola con cui sento di voler concludere questa breve riflessione: “profezia”. Siate sempre un segno di profezia, un annuncio di nuove possibilità, di nuove vie di liberazione e guarigione. Siatelo nella società, nella comunità degli uomini e delle donne. Siatelo anche nella Chiesa, aiutando la comunità cristiana a superare quel formalismo ipocrita che divide il mondo in buoni e cattivi, in perfetti e scapestrati, dimenticando invece che la fragilità è eredità comune di tutti, non solo di chi cade, non solo di chi sbaglia. Siate sempre una profezia comunitaria capace di prendersi cura di tutte le storie di solitudine che incontrate ogni giorno. E, in questa storia frammentata e segnata dall’individualismo e dai paraocchi, il metodo comunitario sia il tesoro che con generosità donate a questo tempo: un tesoro capace di ricostruire le trame dell’incontro, di trasformare luoghi di morte in culle di vita, di creare interconnessioni profonde tra tutti coloro che, sulla scia del Maestro di Nazareth, si adoperano per costruire una civiltà giusta e pacifica, solidale e unita, la civiltà dell’amore!”

Mons. Domenico Battaglia, Arcivescovo di Napoli