La forza del messaggio di Papa Francesco affidato all’enciclica “Fratelli tutti” è di intensità straordinaria e tocca, con la semplicità disarmante del suo amore per l’Uomo, i temi più complessi della nostra frammentata contemporaneità. Un messaggio che costringe tutti noi a mettere in discussione radicalmente l’approccio con la realtà che ci circonda.
Il Papa ci regala una nuova concezione di prossimità che, soprattutto per chi opera nella comunità e nel sociale, può rappresentare la chiave interpretativa di nuove strade da esplorare.
L’enciclica pone al centro di ogni cosa un assunto tanto semplice nella sua declinazione, quanto difficile da attuare nel suo significato più profondo: nella prossimità con l’altro, con ogni altro, si completa la nostra dignità umana.
Non è solo un’esortazione al rispetto dell’Uomo, ma a condividere una “fratellanza” che va oltre, che entra dirompente nella nostra sfera relazionale “l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro”.
Un concetto di prossimità che non si nutre di un mero rapporto “contrattuale” tra l’incluso e l’escluso, dove il primo può limitarsi a vivere l’altro come soggetto da assistere, ma che impone di mettere in gioco sé stessi, in quanto persone, non per il ruolo assegnato, nella costruzione di una relazione dove si è protagonisti alla pari.
Seguendo tale logica non siamo più semplicemente chiamati a chiederci chi sia il nostro “prossimo”, atteggiamento che spesso ci ha portato a conseguenze di chiusura difensiva nei nostri ristretti gruppi sociali, ma siamo chiamati a farci “prossimo” di ogni altro. E’ la prossimità che diviene “popolo” e comunità.
L’Uomo quindi inteso nella sua piena dimensione relazionale, che non nega, ma anzi qualifica, l’eccezionale importanza di ciascun singolo, straordinario nella sua unicità e meravigliosamente connesso con tutti gli altri.
E su questo Francesco è chiarissimo “Sempre meno si chiama un uomo col suo nome proprio, sempre meno si tratterà come persona questo essere unico al mondo”.
E’ l’Uomo, sempre l’Uomo, ed in particolare il più fragile ed emarginato, il centro dell’enciclica.
Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi”.
Francesco ribadisce la necessità della Giustizia sociale, senza la quale non potrà mai esservi pace. I poveri, i diseredati, non possono essere costantemente dimenticati e messi ai margini.
Troppo spesso gli ultimi sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste, che non tengono conto della dignità, delle aspirazioni, dei sogni, dei talenti di ognuno.
E nella dimensione della prossimità, ripartire dagli ultimi significa metterli concretamente al centro di un processo di “liberazione” teso a restituire loro piena dignità umana.
Se pensiamo ad esempio alle politiche delle nostre città, ai servizi verso i cittadini più deboli e fragili, e proviamo a farlo attraverso le chiavi di lettura dell’enciclica, non potremo più limitarci a percorsi meramente assistenziali, diritti sociali che appaiono come concessioni, come un lusso che non sempre ci si può permettere.
Stare vicino ad una persona che soffre, accoglierla ed accudirla, è una forma meravigliosa di carità, ma, ci ricorda Francesco, è carità anche eliminare le cause della sua sofferenza.
E’ la “carità politica”, quella buona politica che non cede all’economia, troppo spesso invocata, soprattutto nei servizi sociali, per giustificare il disimpegno, ma che è tesa a superare mentalità individualistiche ricercando “vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della vita sociale”.
Ma chi è tenuto a fare politica? E’ qualcosa che va delegato a pochi “professionisti”? Anche qui la risposta del Papa è chiara: “c’è una “architettura” della pace nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un “artigianato” della pace che ci coinvolge tutti”.
Siamo quindi tutti chiamati ad essere artigiani dell’inclusione, puntando al pieno e concreto riconoscimento della dignità umana di ogni persona.
Non si tratta di garantire meramente “pari opportunità”, scorciatoia spesso utilizzata per giustificare privilegi di alcune classi rispetto ad altre, ma di avere uno Stato ed una società civile capaci di investire nelle fragilità, in percorsi realmente orientati alle persone ed al bene comune.
In quest’ottica tutto assume, necessariamente, altri significati.
La stessa definizione di sviluppo, guardata con gli occhi della prossimità, non ha più nulla a che vedere con la ricchezza e l’accumulo di risorse, e nemmeno con il progresso materiale e tecnologico, ma attiene alla dimensione dei “diritti umani, personali e sociali, economici e politici”. Il vero sviluppo di una comunità coincide quindi con il riconoscimento della dignità umana di ogni suo componente, e di conseguenza con il pieno godimento di tutti i diritti inscindibilmente connessi a tale condizione.
Siamo tutti legati, intimamente connessi nella nostra natura umana, da un filo che non può essere spezzato: se una parte dell’umanità soffre, necessariamente prima o poi, questa sofferenza arriverà a tutti.
E questo ha valore nel macro-sistema, tra i popoli, ma ha il medesimo valore anche nelle nostre comunità territoriali, nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
E’ quello che il Papa descrive con il significato di “popolo”, inteso come comunità frutto di relazioni e senso di appartenenza, contrapponendolo al “populismo” di chi invece sfrutta a fini egoistici il sentimento umano, strumentalizzandolo politicamente.
I gruppi populisti chiusi deformano la parola popolo” che invece è per definizione aperta, tesa al futuro, non negando sé stesso e la propria cultura, ma in cammino costante per essere “allargato, arricchito da altri”.
Solo partendo da questa straordinaria apertura alla relazione con l’altro, intesa come necessità imprescindibile, è possibile per la comunità evolversi realmente. E’ possibile pensare e realizzare un mondo migliore.
E le parole del Papa risuonano come monito, in particolare in questo momento di recrudescenza della pandemia, che ci spaventa e ci spinge a rinchiuderci in noi stessi, un momento nel quale è cogente il rischio di lasciare indietro qualcuno, in particolare i più deboli e fragili. Non ci si salva da soli, a ciascuno di noi verrà chiesto conto: dov’è tuo fratello? E sapremo rispondere solo se avremo vissuto sino in fondo la prossimità di cui parla il Papa, se saremo stati capaci di comprendere l’importanza di quel filo che unisce ciascuno di noi, nessuno escluso.

Luciano Squillaci, Presidente della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche