Poteva apparire strano che io non mi esprimessi a seguito dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Genova sul tema della Giustizia Riparativa. Genova è la mia città, un territorio decisamente refrattario ai cambiamenti epocali ma anche capace di esprimere criticità foriere di cambiamenti.
Ho scritto tanto sul tema che il mio silenzio poteva destare qualche sospetto di campanilismo. In realtà è stato lo stupore a bloccare il mio flusso critico. Mi sono trovato, all’improvviso, di fronte ad un capovolgimento interpretativo di ciò che dal 2007 studio con particolare passione.
Una passione nata con l’esperienza dell’evoluzione giurisprudenziale che proprio in quegli anni, specialmente a Genova, cercava un po’ maldestramente di introdurre il tema della Giustizia Riparativa. Si scatenarono pensieri diversi ma concordi nell’ostacolare il risarcimento economico della vittima come riparazione.
Ad appassionarmi sono state le riflessioni di insigni cattedratici come il Prof. Ceretti, la Prof. Mazzuccato , la Prof. Patrizi e il Prof. Turchi che mi hanno consentito di uscire da una visuale tradizionalmente processuale per entrare in una dimensione relazionale che, probabilmente, già mi apparteneva per l’esperienza ventennale nel sociale. Il ringraziamento a loro è implicito, così come al Gruppo persone private della Libertà personale del Forum del Terzo Settore in cui negli ultimi anni ho avuto modo di approfondire criticità ed opportunità
Questa premessa giustifica, dunque, la mia cautela per lo stupore di fronte alla volontà di smontare pezzo per pezzo un impianto normativo egregio, sia pure perfettibile, che ha riunito esperti non necessariamente orientati politicamente ma sicuramente profondi conoscitori della materia.
Un vento politico di scurezza giace nell’ombra di certe prese di posizione caratterizzate da pregiudizi che rallentano il sorgere di un cambiamento che odora di “buonismo” per cui poco apprezzato.
L’ordinanza emessa da Tribunale di Genova in data 21.11.2023 è un valido esercizio stilistico che affronta tematiche importanti per la nostra Giustizia e mette in discussione un impianto normativo che aveva trovato il plauso sociale ma che celava , come già insinuato, dietro sé retropensieri affatto solidaristici.
L’evoluzione sociale che si univa alla necessità di snellire la macchina giudiziaria spostando la visuale dal proposito repressivo/riabilitativo, in cui il reo viene posto al centro dell’intervento, alla opportunità di ripristinare la relazione fratturata delle parti in gioco nel reato, non trova il consenso unanime.
Il primo attacco giungeva proprio dalla lentezza con cui venivano emanati i decreti, il secondo, assai più duro, dalla volontà di rendere tanto complessa la realizzazione dei Centri di Giustizia Riparativa da procrastinare sine die la riforma.
La qualifica di mediatore esperto in programmi di Giustizia Riparativa richiede una formazione tanto lunga ed articolata da non poter prevedere la luce di un’evoluzione sempre più necessaria.
Su questo punto la Magistratura – non tutta probabilmente – si attesta per respingere con formalismo giuridico la richiesta di accesso al programma di Giustizia Riparativa incurante della fase di transizione in corso.
Un escamotage quasi ineccepibile: i Centri di Giustizia Riparativa non esistono perché anche i mediatori esperti non sono ancora adeguatamente formati.
L’ordinanza, che appare più un esercizio dottrinale che un reale approccio al sistema, analizza norma per norma e perde completamente di vista l’obiettivo.
L’ordinanza afferma “L’attività di mediazione non si improvvisa”. Questo diktat che risuona come una minaccia a chi tenta di intrufolarsi nei sistemi riparativi, in realtà nasce da una visione tutelante proprio della vittima che il Restorative Justice prescrive, e da un leit motiv che il Gruppo Persone private della Libertà personale del Forum del Terzo Settore ha sempre ribadito anche in sede istituzionale in cui ha avuto modo di portare un contributo essenziale alla creazione della Giustizia Riparativa.
Ma è anche vero che il decreto Ministeriale introduceva una norma transitoria che avrebbe consentito ai mediatori già formati di vedere riconosciuta una professionalità affatto improvvisata. Al Tribunale di Genova questa parte è decisamente sfuggita e, per non fermarsi solo al formalismo che già avrebbe consentito al Collegio di ostacolare i progetti, il giudicante si è inoltrato sul terreno sconnesso della relazione tra autore e vittima.
Come sostiene l’ottima collega Valentina Alberta sulle pagine di Giurisprudenza penale, era prevedibile una visione della riforma come portatrice di un pericolo per la vittima e di un ingiustificato privilegio per l’accusato. Non era necessario attendere l’ordinanza del Tribunale di Genova.
Tutto ciò che emerge dal provvedimento genovese è una forte incapacità di gestire un procedimento delicato di ricostruzione: la difficoltà di riconoscere il valore di un processo di costruzione di una realtà altre non anticipata né anticipabile che viene ad inserirsi in un conflitto che va nel senso della maggior tutela della vittima.
Era prevedibile che il maggiore attacco venisse sferrato proprio in presenza dei reati di cui al codice rosso o di tutti quei reati in cui la vittima rischia di subire una vittimizzazione secondaria.
Al Tribunale di Genova sfugge proprio che tale vittimizzazione frequentemente avviene proprio affrontando il processo, magari a distanza di mesi se non di anni, intervallo di tempo tale da acuire l’ansia e il dolore. Al Tribunale sfugge, altresì , come il processo riparativo consenta alla vittima di stemperare la sofferenza attraverso la narrazione e assistere alla modificazione del conflitto.
Il filosofo Miguel Benasayag, parlando del conflitto afferma “La dimensione dello scontro non è mai l’unica dimensione disponibile all’interno di un conflitto. Dobbiamo raggiungere la conoscenza che procede individuando cause, relazioni rapporti tra le cose”.
Il termine conoscenza, seguito dal riconoscimento dell’alterità è la chiave che consente di entrare nel conflitto senza uscirne sconfitti. Il processo penale, a differenza di quanto si ritiene, questa garanzia non la offre.
Questa visione non appartiene solo all’apparato giudiziario, ma è riscontrabile anche in chi opera nel sociale con esperienza codificata. Il sentimento di tutela della vittima è talmente alto da surclassare il bisogno di ripristinare la pace sociale. Proprio nel corso di un incontro di formazione di operatori del sociale mi sono sentito opporre le considerazioni che il Tribunale di Genova ha espresso nell’ordinanza. È evidente che molto cammino occorre per modificare la cultura imperante che vede nella acritica repressione l’unica forma di sicurezza.
Il Tribunale di Genova afferma che il giudice dovrebbe essere quella figura che assomma tali competenze da poter valutare la motivazione del reo ad accedere a un percorso riparativo senza l’esclusivo fine di ottenere benefici processuali. In questo modo entra in contraddizione con il formalismo espresso nella prima parte dell’elaborato laddove si pretende che il mediatore abbia una tale formazione da poter entrare nel conflitto.
La dicotomia sta nella presunzione che il giudice possieda a prescindere queste capacità e sia in grado di fare una scrematura motivazionale senza essere in possesso dei requisiti che la legge richiede.
Ulteriore elemento che la collega Alberta esprime con encomiabile precisione, riguarda il timore che il processo riparativo inquini l’acquisizione delle prove che normalmente assurgono a tale rango solo nell’aula di Giustizia e nel contraddittorio delle parti. Un timore fondato ma privo di un concreto pericolo perché l’attività del mediatore esperto non è volta all’acquisizione delle prove. Il processo di mediazione si fonda su elementi differenti modificando l’aspetto dialogico aprendo nuove prospettive di convivenza.
Orbene, senza dilungarmi oltre o rimarcare ciò che giuristi più degni hanno fatto e stanno continuando a fare, posso dire che il legislatore, opportunamente sollecitato, ha emanato il Decreto 15 dicembre 2023 che propone la modifica del Decreto 9 giugno 2023 che introduce le norme sui mediatori esperti in programmi di Giustizia Riparativa.
La lettura del nuovo testo non pone adeguato riparo ai formalismi insiti alle norme vigenti se non quello di ampliare i termini di iscrizione per consentire a una maggior fascia di persone di iscriversi all’albo. Manca ancora un’attenta valutazione del percorso formativo e un adeguato riconoscimento di figure professionali già in possesso di requisiti idonei a gestire di percorsi di Giustizia Riparativa.
Manca ancora la visione della volontà riformatrice e l’incapacità di semplificare concetti, sia pure delicati, per renderli fruibili a tutti e paventare i timori chele persone vedono in questo nuovo modo di concepire la Giustizia.
Dopo quasi vent’anni non ho cambiato il mio modo di concepire il benessere sociale e l’opportunità che anche il sistema di accertamento delle responsabilità personali e dei traumi inflitti posano trovare spazio proprio nella costruzione del benessere.
di avv. Marco Cafiero, Consulente FICT