La Riforma Cartabia con fatica avanza nei meandri dei Palazzi di Giustizia, a volte tollerata, a volte compresa a metà. Trovano la luce finanche i decreti attuativi che definiscono il ruolo di mediatore esperto per la gestione dei processi riparativi: i livelli qualitativi e formativi sono talmente alti da creare una serie di difficoltà attuative e una serie di polemiche intorno agli enti formativi.
Sembra trapelare il retropensiero della matrigna di Cenerentola che rivolta alla figliastra le dice “Se troverai un vestito abbastanza bello potrai venire al ballo”. Oggi mi sembra di leggere “se riuscirete a far funzionare i Centri di Giustizia riparativa…” non riesco a leggere il seguito.
Tuttavia di questo disponiamo e noi romantici proviamo a fare funzionare la riparazione nonostante le lacune che questa normativa ancora presenta e le contraddizioni che i detrattori tendono ad esaltare.
È per questo che mi allarmo quando avverto un pensiero che serpeggia tra alcuni colleghi penalisti, per cui il ruolo del difensore risulterebbe indebolito da questa procedura fondata su strumenti di “soft law”. Fanno certo riferimento alla Giustizia senza spada posta alla base dell’idea di riparazione. Emerge che il ruolo del difensore resta tale solo se può impugnare la spada per difendere il proprio assistito.
Allora la Giustizia è una lotta e non un modo di ristabilire un ordine turbato da un’offesa?
Il sistema riparativo metterebbe in crisi il sacrosanto principio della presunzione di innocenza, quasi fosse un’imposizione della Magistratura. Si parla di potere ufficioso del Giudice di inviare l’imputato, anche contro la sua volontà, ad un Centro per la Giustizia Riparativa. Non leggo in nessuna delle norme della Cartabia un’affermazione del genere né, in tanti anni di approfondimento sul tema, ho mai trovato un pensiero del genere. La stessa definizione di Giustizia riparativa ““Ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore” prevede un consenso libero alla partecipazione. Parrebbe, secondo una parte dell’Avvocatura, che la libertà riguardi esclusivamente la prosecuzione del progetto e non l’accesso allo stesso.
Il problema sembra risiedere nel fatto che il giudice, dovendo necessariamente ritenere innocente l’imputato prima di averlo giudicato, lo indurrebbe a porsi al cospetto della persona offesa a prescindere da una libera adesione, violando così quel principio fondamentale del nostro stato di diritto.
Non intendo condividere questa affermazione principalmente perché alla persona ancora in fase di indagini o successivamente alle stesse, non è imposto alcunché, caso mai suggerito, e non accetto che il suggerimento venga letto quale obbligo subliminale il cui rifiuto a riparare una frattura determinata con il suo comportamento assuma una valenza negativa. Se fosse così il Giudice anticiperebbe un convincimento infondato e non corroborato da prove, violando quel principio di imparzialità che deve caratterizzare la serena celebrazione di un processo.
Se colui che ha determinato l’offesa dovesse capire in tal senso l’invito alla riparazione la Giustizia Riparativa perderebbe ogni valore.
Mi appello alla lungimiranza dei colleghi sensibili evitare che questa deriva si attui in applicazione di una normativa che in tutti i modi ha cercato di affermare i concetti espressi da European Restorarive Justice
Mi spiace ancor più leggere che il difensore verrebbe visto come un intruso nel processo riparativo. Non è questo che la normativa esprime, tanto meno i lavori che hanno determinato la sua costruzione. Il difensore della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima hanno facoltà di intervenire purché si adeguino ai principi di riservatezza e indipendenza che caratterizzano gli spazi messi a disposizione del processo riparativo.
È stabilito che gli interessati partecipino personalmente a tutte le fasi del programma e possano essere assistiti da persone di supporto. Non mi pare di leggere in alcuna parte della normativa che tra queste persone siano esclusi i difensori.
È altresì garantito che i difensori delle parti abbiano la facoltà di assistere i partecipanti nella definizione degli accordi.
Non mi sembra che questo assunto ponga in crisi il ruolo del difensore, mi pare, invece, che il difensore abbia la possibilità di trovare in tale spazio un ruolo che, oltre ad essere connotato dalla sua professionalità, rappresenti un nuovo modo di creare benessere sociale senza intaccare i principi fondamentali dello stato di diritto.
Ciò che mi affascina della Giustizia Riparativa è l’aspetto creativo e libero che consente l’opportunità di costruire relazioni sulle macerie di rapporti distrutti, un obiettivo che non dovrebbe sminuire il ruolo di un avvocato.
La Giustizia riparativa induce la comunicazione tra le parti costruendo un dialogo che non è un intrecciarsi di discorsi ma è l’incontro che esalta la differenza tra le parti.
Viviamo in una società che a dispetto dei “buoni” intendimenti di “accoglienza” e “integrazione” è caratterizzata da un forte individualismo e dalla scarsa volontà di riconoscere l’altro come portatore di diritti ed interessi. Una società che è una somma di individui che sgomitano per affermarsi a dispetto degli altri. L’accettazione della diversità pare riposare principalmente in discorsi teorici e non nella reale volontà di vivere pacificamente.
La giustizia riparativa riporta al centro la relazione come lubrificante di un benessere che necessariamente ricade sugli individui. La persona comprende che la comunicazione e il riconoscimento dell’altro determina il raggiungimento di un risultato.
La mia personale idea di difesa è quella volta ad ottenere il miglio risultato per l’assistito non solo dal punto di vista giuridico ma anche per quanto riguarda il di lui benessere psico-sociale. E se tale obiettivo non valorizza in pieno le mie doti professionali vuol dire che darà risalto a quelle umane.
Spero che i colleghi non me ne vogliano ma mi piace pensare che la giustizia riparativa possa contribuire a tutto ciò.
Aiutiamo a costruire una nuova cultura di convivenza!

di avv. Marco Cafiero, Specialista in criminologia clinica
Consulente F.I.C.T.