Carissimo don Giorgio,
te ne sei andato in punta di piedi, proprio in questo periodo strano e duro di paura e di blocco relazionale per tutti.
Ho ricevuto la notizia della tua morte con forte dolore. Dolore aggravato e triste dal non poter correre a donarti l’ultima preghiera di commiato. Per darti e darci l’ultimo saluto tra vivi. Per ricordarci che la tua vita è diventata qui e ora Vita Eterna e ci attendi.
Tra presidenti fondatori ci eravamo affratellati tanto nelle fatiche degli inizi, così da trovarci spesso nei momenti dell’avvio creativo dei nostri Centri. E così, anni dopo, ci siamo sempre corsi ad accompagnare chi raggiungeva il momento della sua apertura al Centro Eterno. Quello di totale e definitiva appartenenza umana, dentro l’infinito e unico Essere Trinitario e relazionale che è Dio. Perché la certezza nella fede in Cristo, il risorto nel suo stesso corpo, ci dice materialmente questo.
Per te non è stato possibile. Mi sento mortificato, come tutti i protagonisti del tuo Centro.
Don Giorgio, un sottile ma tenace filo spirituale mi ha unito a te. Ci siamo trovati molto spesso d’accordo nei pensieri e nelle prospettive di azione, per dare indipendenza, autonomia e libertà alle persone e alle famiglie finite nella trappola della dipendenza.
I due rosari che ho recitato in suffragio per te, la sera, nel giorno della tua morte, com’è nella natura del rosario – lo sai – mi hanno permesso di riandare col pensiero ai ricordi, al nostro passato di incontri, di solito lieti.
C’eri anche tu ad Arliano di Lucca quel tardo autunno del 1982, giornata micidiale per brutto tempo, al mio primo incontro con Progetto Uomo, impersonato da don Mario Picchi. Osservai anche te per ore, in silenzio, oltre a don Mario. La tua fronte molto spaziosa e rotonda, capelli neri ondulati, il viso tendenzialmente scarno e la mandibola spigolosa ed esposta, da uomo tenace.
Ultimo pulcino nato nel cesto delle prime comunità di Progetto Uomo, ero finito ad Arliano per imparare i primi passi e i princìpi primi (guai arrivare in ritardo!, ma tutti finirono ritardati per maltempo) e stavo ad ascoltare come una spugna ogni parola. Povero pivellino qual ero, prendevo nota di tutto, alla lettera. Potrei ricostruire l’ordine delle persone intorno alla tavola, nella piccola saletta. A capotavola don Mario, nella fila di destra in mezzo c’eri tu, mentre sedevo nella fila di sinistra accanto ad Avanzini di Verona. Parlasti pure tu. Non ricordo le parole dette.
Ricordo e mi è sempre viva la tua parlata concisa, pensieri masticati dentro a lungo nell’ascolto – e trattenuti -, quindi esposti con una certa energia aggressiva e decisiva. Il tuo punto di vista lo qualificavi bene.
Dalla tua persona emanava una tenacia silenziosa, tosta, operativa, esigente e coerente, che ho sentito come valido riferimento per me. Più parsimonioso di me nelle parole, quando le usavi tu, si traducevano sempre in un’indicazione netta: “a me sembra che…”. Però la motivazione era oggettiva.
Non a caso ti sei trovato sulle spalle pure compiti ecclesiali di peso e responsabilità, proprio per questa tua caratteristica.
La funzione del tuo Centro, per come ti confrontavi con me, doveva possedere e offrire alla gente nel bisogno un forte sostegno sociale e in continua ricerca del meglio. Mi risuona la tua frase “bisogna fare meglio” e solo per questo aveva senso mettere davanti le manchevolezze e gli errori.
Non a caso hai messo tutto il lavoro del Centro sotto la parola “Ricerca”. Non è faccenda di poco conto, anzi dà l’energia – ci risiamo – ad affrontare con creatività e impegno gli eventi che minano la libertà e responsabilità delle persone. Di qui la raccolta dei dati e delle situazioni reale tra la gente, la formazione continua, che ambedue attingemmo alla scuola di don Mario, alla scuola di Roma. Anche qui abbiamo fatto qualche battaglia insieme. Sono riconoscente per questo impegno reciproco e la vicinanza nel lavoro che m’è toccato come segretario della presidente Bianca Costa.
La formazione, con la ricerca costituisce la natura del tuo Centro di Piacenza, insieme a un mare di servizi che “cercano” il cuore della persona in difficoltà, perché ritorni protagonista e creativa di libertà verso sé stessa.
Sono grato per il legame che ti portò a Belluno a dare la tua testimonianza su tutto ciò, nella celebrazione degli anniversari di fondazione e che ricambiasti, invitato da te a mia volta per gli eventi fondativi tuoi.
La prima volta mi facesti dormire nella stanza di un ex-convento. Nella visita degli ambienti condividesti una vicenda spirituale. Sorprendente, per non dire sconvolgente.
Mi portasti nella stanza/camera della fondatrice madre Rosa, e mi parlasti del suo rigore: digiuni, flagellazioni notturne, preghiera assidua, dedizione incondizionata alla vita della comunità femminile, amore incondizionato a Cristo Gesù. Tanto da fare un buco sulla parete della sua cella per poter osservare il tabernacolo con l’eucaristia, presente nella cappella dall’altra parte. Cose eccezionali e fuori d’ogni misura, da santa vera. Cose fatte all’insaputa della sua comunità conventuale, all’insegna della totale normalità. Solo dopo la sua morte e per caso si scoperse il tutto di questa vita consacrata.
Di fronte al mio stupore, pressoché incredulo, allargasti le braccia, abbassandole come una resa, e mi dicesti “così è”. Ci guardammo. Fu in quel momento che, sul tuo volto spigoloso e negli occhi dietro le lenti, vidi una sintonia spirituale con questa donna: dedizione radicale. E la rividi quando mi comunicasti il nuovo incarico di servizio affidato dal Vescovo per la tua chiesa. Una resa alla radicalità.
Da quel momento ho percepito la dimensione profonda e spirituale del tuo impegno di uomo credente e di prete al servizio.
Radicalità che s’è realizzata negli ultimi anni della tua vita, durante i quali ho perso purtroppo il contatto. Mi dispiace profondamente di non esserti stato vicino.
Ecco il progredire della malattia che ti ha tolto gradualmente le parole appropriate. A te, di poche parole, scarne e sempre decisive. Ti privava della memoria e accresceva giorno dopo giorno la solitudine, con difficoltà sempre crescente di entrare in relazione.
Fino a morire nell’abbandono, solo in casa di riposo e in ospedale, con infinita tristezza. E pena indicibile a tutte le persone, che hai amato e ti hanno amato e seguito, senza la possibilità di venirti a trovare e darti il conforto d’una presenza. Magari muta, e che tu gradivi.
Ulteriore pena d’essere colpito da Covid-19 ed essere sepolto senza aver intorno la grande schiera delle persone che, con il tuo impegno radicale, avevano ritrovato la vita.
Sei morto, don Giorgio, come Gesù in croce.
Come la sorprendente madre Rosa, che guardava il Cristo eucaristico lungo le notti, per un buco nel muro, dalla sua cella.
“Tu uomo, parte di un tutto, con il suo contributo da offrire”.
Da offrire fino in fondo, per la dignità regale e divina della persona umana. Che si rivela in pienezza solo con l’effettiva pratica, cosciente e responsabile, di indipendenza, autonomia e libertà.
Dove la libertà, quella vera, va oltre sé ed è perciò divina.
Progetto Uomo porta con sé questa radicalità.
Don Giorgio, tu ne sei testimone.
Questa tua morte ci riporta alle origini.
Hai coronato la tua vita, nel nascondimento finale.
Le opera grandi, come la tua, nascono nel silenzio e crescono nella sofferenza amorosa, ma che fonda la gioia umana e cristiana, che gli “egoici” non conoscono.
E affermi per me e per tutti noi: non bastano saggezza ed energia, serve radicalità nell’impegno sociale per la vita libera. Tu lo hai profuso, senza limite.
Ti prego, ora che puoi con Colui che tutto può, di procurarci la forza necessaria, qui e ora, a ripartire subito sulle macerie della prima “peste globale” che ci ha colto di sorpresa nel millennio tecnologico. E ci ha posto in isolamento, violentando l’essenza della natura umana.
Che il Padre della vita ti renda eterna quella felicità che hai cercato di donare in briciole a tante famiglie e a tanti giovani.
Don Giorgio, grazie d’esserci stato accanto. E arrivederci.
Don Gigetto De Bortoli