Dal suo ufficio viennese dirige quello che definisce il «volto umano» della lotta alla droga: quello che non si occupa di  repressione  e anticrimine, ma «mette al centro i tossicodipendenti», spiega. Gilberto Gerra, medico e docente universitario con un passato da direttore del Sert di Parma e dell’Osservatorio nazionale droga della Presidenza del Consiglio,  è dal 2007 a capo del settore Prevenzione droga e salute del programma    contro   droga e   crimine (UNODC)  dell’Onu,  diretto dal russo Yuri Fedotov.

fonte: Gazzetta di Parma

Tre i settori di cui si occupa il suo ufficio viennese – dove lavorano venti persone – e  i 25 referenti sparsi per il mondo, principalmente in Asia, Africa e America Latina: prevenzione e trattamento delle tossicodipendenze; sopravvivenza sostenibile e sviluppo alternativo (che include aiuti per la riconversione dei coltivatori di droga e anche dei piccoli spacciatori); unità anti-Aids.
Professor Gerra, quanti sono i tossicodipendenti nel mondo?
«Le banche dati sulle tossicodipendenze sono state istituite di recente  nel mondo occidentale, ma in gran parte del pianeta  ci si basa ancora su valutazioni senza validità scientifica. Si stimano 25 milioni di persone che fanno uso ‘continuativo e problematico’ di droghe, ma la forchetta di errore oscilla fra 15 e 38 milioni».
 Come sta cambiando il mercato della droga?
 «I trafficanti hanno fatto un’abile operazione di marketing che ha aperto nuovi mercati: dal 2000 osserviamo  l’esplosione dell’eroina negli Usa e  della coca in Europa. Prima, anche per  contiguità con i luoghi di produzione, gli Usa erano invasi dalla coca del Sudamerica e il Vecchio Continente dall’eroina proveniente da Balcani, Asia centrale e Russia. Altra novità: si sono imposte le anfetamine,  stimolanti,  in Asia, tradizionalmente legata all’oppio, che è invece  un  depressore. Ma le anfetamine hanno anche un buon mercato in Europa e in Giappone, mente l’America Latina da produttrice sta diventando  anche consumatrice di coca».
Che ne pensa dell’antiproibizionismo?
«Che per ora è destinato a rimanere un movimento e che le proposte di legalizzazione delle droghe trovano un ostacolo nella Convenzione internazionale contro le droghe, i cui allegati hanno stabilito  le sostanze illecite. La Convenzione è stata  ribadita anche di recente e   firmata da 188 dei 192 Paesi membri delle Nazioni Unite. Del resto, gli esperimenti in questa direzione finora   sono stati deludenti: l’Olanda sta facendo un passo indietro sui coffee shop che vendono cannabis, ponendo restrizioni  e riducendone il numero, l’ex premier britannico Gordon Brown è tornato sulla decisione di Blair  di declassificare la cannabis, reintroducendola nella classe A delle droghe, e il Canada sta ripensando la sperimentazione delle ‘injection room’ sotto la supervisione di medici».
Quali sono le linee guida del suo lavoro?
«Se il  problema della tossicodipendenza  viene affrontato solo con la repressione, puoi anche   far sparire dalla faccia della terra   ogni  droga,  e la gente cercherà altro, qualsiasi cosa. In Brasile i ragazzini troppo poveri per comprare una dose si iniettano ‘porcaria’, un miscuglio di benzina verde e Roipnol. Dietro il fenomeno droga, così come lo conosciamo dagli anni Sessanta, c’è un  malessere profondo.  Occorre trattare il tossicodipendente come si fa per qualsiasi altro malato. ‘Niente di meno’, è il nostro motto.Mentre l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità, altro organismo Onu n.d.r) fino a pochi anni fa ha avuto  come priorità la cura di alcolisti e tabagisti».
Le cose sono cambiate?
«Ci stiamo provando. Abbiamo messo in piedi  programmi congiunti con l’Oms, che fino a qualche anno fa non cooperava  con l’UNODC. Bisogna cambiare la mentalità di molti Stati membri che considerano i tossicodipendenti persone da recuperare forzatamente attraverso la punizione. Noi sosteniamo, come aveva fatto Basaglia per i malati psichici, che il consumatore non può essere trattato senza il suo consenso, se non per periodi limitati e se è a  rischio la vita sua o di chi gli vive accanto. Lo sa che in alcuni paesi asiatici i drogati sono rinchiusi in campi lavoro al servizio, gratuito,  di varie aziende? Sempre in Asia,  i  tossicodipendenti  in astinenza vengono rinchiusi  in  gabbiette  di bambù,   senza alcun aiuto farmacologico, mentre  in un centro islamico chi cerca  di disintossicarsi viene immerso in una vasca con ghiaccio,  che acuisce il dolore.  Per non dire  di chi celebra il 26 giugno, giornata nazionale contro la droga, con esecuzioni di massa sulle pubbliche piazze di piccoli spacciatori, che sono anche consumatori».
Insomma bisogna   passare dalla coercizione alla cura.
«Esattamente. La nostra ambizione è arrivare a dettare principi  di trattamento della tossicodipendenza e aiutare gli Stati membri ad intraprendere politiche sanitarie  di prevenzione, cura e anche riduzione del danno –  che può essere una fase del recupero –  e di protezione sociale per bambini, adolescenti e famiglie. Cito ad esempio il programma Treatnet, attivo in 27 Paesi asiatici, africani mediorientali e dell’America Latina. O il programma di prevenzione mirato alle famiglie – due milioni  di dollari per  la fase pilota –  che adotta con successo strategie innovative, come incentivi, doni e cene gratuite    per agganciare famiglie a rischio che altrimenti non si sarebbero mai avvicinate. O la prevenzione sui luoghi di lavoro, che  coinvolge aziende, assicurazioni e sindacati  facendo capire loro che si tratta di un investimento che renderà l’azienda più produttiva, e non uno spreco di denaro».
A proposito di denaro, quanti fondi avete a disposizione?
«Il 20% del nostro finanziamento annuale viene dalle contribuzioni obbligatorie degli Stati membri e ci viene girato  dalla sede centrale Onu di New York. Il restante 80%   da contribuzioni volontarie degli Stati membri in base alla persuasività dei vari progetti. Nel 2010 abbiamo ottenuto 13 milioni per prevenzione, cura e terapia; cinque milioni per sopravvivenza sostenibile e sviluppo alternativo; e 30 milioni per il programma contro l’Aids. E mi piace sottolineare che i fondi volontari  sono decuplicati negli ultimi anni».  

 
di Monica Tiezzi – Gazzetta di Parma