Secondo l’ISTAT circa 15 milioni di persone in Italia (precisamente il 24,7% della popolazione, quasi un quarto degli italiani) «sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale». Di questi circa il 57% vive nel nostro meridione.
Una situazione che pone l’Italia agli ultimi posti tra i paesi europei, ben al di sotto della media dell’Unione. Una crisi che sembra non avere fine e che ha riportato l’Italia indietro di oltre 10 anni.
Negli ultimi due anni sono stati persi oltre 900 mila posti di lavoro a tempo pieno, e la vulnerabilità delle famiglie è in continuo aumento.

Ovviamente ad essere colpiti sono le categorie più a rischio, i giovani che ormai subiscono una situazione di precarietà strutturale, le donne sempre più escluse dal mondo del lavoro e gli anziani che vivono spesso in condizioni di povertà e deprivazione, nel più totale abbandono.
Un fotografia impietosa che restituisce l’idea di un Paese in decadenza, che crede di risolvere tassando i più poveri, che smantella sistematicamente lo stato sociale e che, ha già annunciato, azzererà entro il 2013 il fondo per le politiche sociali. Uno smantellamento che è disinvestimento economico ma soprattutto culturale. Il sistema del Welfare non è più sostenibile con fondi pubblici, ci stanno dicendo e ce ne stiamo convincendo, ma l’evasione fiscale resta di 38,41 euro ogni 100 versati all’erario e quelli si, potrebbero essere fondi guadagnati alla causa del welfare. Il disinvestimento culturale che conduce all’idea che un livello minimo di dignità di vita, anche per i più poveri, non è una questione di giustizia ma di gentile concessione dei più ricchi schiude al primato del principio del minor costo economico applicato alla gestione dei problemi sollevati da poveri, tossicodipendenti, disabili ed anziani,  prestandosi ad immaginare anche soluzioni poco lusinghiere della vita umana: “se prevenire è meglio di curare” sopprimere costa ancora meno. Lo scenario futuro vedrà barattare il diritto con la beneficenza, la giustizia con la questua. Chi si occupa di sociale è molto preoccupato perché sta già sperimentando, da tempo, il rarefarsi delle risorse, la mancanza di fondi delle pubbliche amministrazioni, gli stipendi non pagati, l’impoverimento del sistema a fronte di bisogni crescenti a causa di un disagio che nasce da una povertà economica sempre più diffusa. Eppure la maggior parte di questi operatori, che sono psicologi, educatori, assistenti sociali, continua a recarsi ogni mattina al lavoro, sapendo che il crescente disagio pretende un argine, anche se come spesso accade sono questi stessi operatori i nuovi poveri. Forse non sono sufficientemente chiare alla politica le funzioni degli operatori sociali, che tra le altre cose, contribuiscono ad evitare che il grido di dolore che ogni giorno più forte si alza dalle strade di periferie abbandonate, di interi paesi controllati dalla criminalità organizzata, di fabbriche che chiudono, di precari senza futuro, di famiglie sofferenti, di dignità dismesse, di diritti negati, si trasformi in un grido di rabbia distruttiva. Gli operatori sociali sono un ammortizzatore che contiene i conflitti sociali, alla modica cifra di 700/800 euro quando capita (ma nessun timore la politica non si vergogna di nulla nel nostro paese).
Il modello di welfare verso il quale stiamo precipitando, è la risultante di politiche miopi che nell’ultimo decennio hanno colpito al cuore un sistema di politiche sociali che con tutti i suoi limiti, rappresentava comunque un modello per molti paesi europei, ma è un modello tanto più miope perché non riflette sul rischio crescente di conflitto sociale e rende il paese un luogo più insicuro.
Sono le stesse politiche che conducono ad una idea di federalismo sempre più settoriale e sempre meno solidale, che alimenta le aspre divisioni tra nord e sud, che promuove, nell’epoca in cui le aziende si accorpano e fanno massa critica, un localismo sempre più spinto. Queste politiche stanno sottoscrivendo la fine di un’epoca, rendendo inesigibili diritti sino ad oggi garantiti e definendo uno Stato a macchia di leopardo dove dai principi universali stiamo scivolando sempre più verso interessi particolari. Sono politiche che producono le scelte di non far sedere a pranzo i bambini delle materne le cui famiglie non possono pagare il buono mensa e più aberranti i giornalisti che costruiscono un dibattito sopra una scempio simile.
Uno strano paese l’Italia, dove è sanzionato ferocemente il reato di clandestinità, colpa gravissima in capo ad una molteplicità di uomini, donne e bambini che provano a sognare un futuro diverso sfuggendo alla povertà senza speranza, mentre si tollerano indegnamente i comportamenti immorali dei potenti, arrivando a giustificarne persino le aberrazioni più bieche, dove le risorse ci vengono sottratte, rubate da faccendieri senza scrupoli con buona pace della politica, di tutta la politica per cui “più nessuno è incolpevole” [I] di questa tragedia.
Questa è l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli, noi che proprio quest’anno festeggiamo i 150 anni dell’unità d’Italia, che rivediamo le nostre origini nella forza etica e morale, prima ancore che politica, degli uomini e delle donne che hanno fatto grande la nostra storia.
Un’eredità che, al di là della povertà economica, è sporcata da una povertà spirituale e valoriale senza precedenti, che non lascia spazio alla speranza di un futuro diverso.
Ecco perché siamo chiamati ad un nuovo risorgimento. Perché oggi sono in discussione, seppure in modo diverso, gli stessi valori di allora. L’unità del nostro stato, la dignità di ogni italiano, il sacrosanto diritto di ognuno a determinare il proprio futuro. Il nemico è diverso, non è più lo straniero che pretende di occupare la nostra terra, ma non per questo è meno pericoloso. E’ un nemico subdolo, capace di mimetizzarsi dietro pseudo valori, spacciando per equità e per giustizia ciò che è solo interesse e convenienza di parte. Un nemico elegante, che sorride, che accarezza i nostri piccoli, che ghermisce i nostri cuori, che è capace di parlare alla nostra vanità, ma che al contempo si arricchisce sulle nostre fatiche, lucrando sulla nostra precarietà, ingrassando sulla nostra povertà.
Un nuovo risorgimento allora, che deve essere il risorgimento dei cuori, delle passioni e della speranza. Un risorgimento che pretende il coraggio civico di ognuno di noi e di cui ognuno di noi deve sentire la responsabilità, giocando sino in fondo, coerentemente, il proprio ruolo di cittadino. Un risorgimento che non ammette vittimismi, che non potrà essere senza scelte radicali di cambiamento culturale che passino dal mutamento di atteggiamento nelle piccole cose della quotidianità. Se ne usciremo rinnovati, se riusciremo a salvare il nostro paese, se potremo tornare a cantare  senza “il piede straniero sopra il cuore” [II] allora si potremo dire che la crisi economica è stata terapeutica.

Sac. Mimmo Battaglia – Presidente FICT

[I]: E. Montale “la primavera Hitleriana”
[II]: S. Quasimodo “E come potevamo noi cantare”