La vocazione alla strada è un dono di Dio. Proprio la strada, la piazza, le case, i luoghi degli uomini e del quotidiano, sono il luogo in cui Dio e l’uomo si incontrano; è qui che ha senso stare, ascoltare, esserci.
Qui, sulla strada, Qualcuno mi ha dato un appuntamento ed io mi sono fermato, col rischio e la paura di sporcarmi le mani e  di infangarmi di terra, con il bisogno di cercare, anche dove c’è il  buio, la notte,  la disperazione … proprio lì, cercare  l’azzurro di un cielo in cui fa capolino la speranza.

È qui che ho conosciuto volti,  occhi, mani e nomi, anime! Una grazia di Dio, un mistero … come  quello, profondo,  della  conversione. Perché da quei volti, dalla loro fatica, dal loro disagio, dalla loro povertà, dal loro disorientamento, dalla loro ricerca di senso, dalla loro voglia di vivere, ci si lascia “convertire”, continuamente.  Come quella sera di tanti anni fa . .
Una sera d’inizio estate mi trovavo a Catania. Erano le 21,00. Nel rammentare l’ora precisa, mi sovviene il momento incancellabile dell’incontro di Giovanni ed Andrea  con Gesù: “erano circa le quattro del pomeriggio.” (Giov.1,39)
Mi si avvicinò un ragazzo che non conoscevo, di circa venticinque anni. Il suo nome era Stefano. Voleva parlare con me proprio  perché ero un prete. Sì, cercava un prete! Cominciò a raccontarmi la sua vita.
– Ho perduto mio padre a soli cinque anni. Gli volevo bene, ma mi ha lasciato. Ogni giorno, ancora oggi, quando mi vesto o cammino per strada, nel silenzio o al buio, lo rivedo,  morente, e ogni volta rivivo l’impotenza di chi non può far altro se non assistere con una morsa al cuore a “quell’andar via “ lontano da te.
Mi sentivo abbandonato, ma non ne ero  consapevole. Non accettai, in seguito, un’altra figura maschile, il nuovo compagno di mia madre che fece di tutto per proteggermi da me stesso, dai miei pensieri, dalle mie paure, dalla desolazione, ma invano. E così, a quindici anni scappai di casa; ricordo che sentivo una morsa nel petto,  forse più giù fino all’anima …
Volevo non pensare, non sentire; volevo negare anche l’amore che provavo per mia madre; beh, la droga mi diede una mano. E con l’oblio della sostanza potevo giustificare me stesso: giustificare i miei furti, i raggiri, le disonestà, il gruppo disgregato di amici, tutto ciò che si fa per non essere raggiunti, per rimanere bloccati in quel “non vivere”. –
E continuando, dopo una breve pausa di silenzio, cadenzato da un respiro stanco, con fatica sospirò queste parole – Sono sieropositivo!–
Il silenzio si fece pesante:  – Aiutami! Io credo nel tuo Dio ma, quando lo incontrerò, cosa Gli racconterò della mia vita? Cosa è stata la mia vita? E sai qual è l’unico rammarico che mi porto dentro? Quello di non essere mai riuscito a dire a mia madre: “ti voglio bene”. Mi puoi aiutare?- Una domanda che suonava come un imperativo: aiutami!
I suoi interrogativi, il suo rammarico, il suo bisogno di riconciliarsi e di salire quell’unico gradino che gli avrebbe permesso di perdonarsi, furono linfa e forza per me, uomo e prete!
Era notte fonda e  stavamo ancora parlando; alla fine lo abbracciai: la vita di Stefano cambiò e, cambiò   anche la mia. Fu quell’abbraccio a trasformare le  nostre  vite. 
Stefano poi seguì il suo percorso in Comunità e non solo: aiutò anche altri ragazzi ad uscire dalla droga e a ritrovare dignità, speranza.  Visse i suoi anni, il suo tempo, abitandolo, soprattutto  riscattandosi, fino a quando non esplose la malattia.
Anche in quel momento mi volle accanto a sé e qualche giorno prima di morire, prese le mie mani, le strinse forte e mi disse: “Mimmo, non ho paura, lotterò. La guarderò negli occhi, perché mi deve trovare vivo. Ma tu che puoi, dillo ai ragazzi, dillo a tutti i ragazzi,  che questa vita è bellissima e vale la pena viverla. E viverla fino in fondo.”
Già, vivere la vita fino in fondo! Mi affidò queste sue ultime parole, questo messaggio. Un testamento ed un mandato. Da allora sento che la mia voce risuona del timbro di Stefano. E se una voce balbuziente mi ha fatto fermare e voltare, un’altra voce, morente, mi ha indicato dove andare.
In questi anni, ho visto morire tanti ragazzi, molti stroncati dall’AIDS proprio mentre stavano cominciando a gustare ed apprezzare il dono della vita. Sotto la loro maglietta, nel profondo del loro cuore, c’era sempre una ricerca infinita di vita e perciò anche  di Dio. Ma davanti alla loro agonia, alla loro morte, ero io che spesso mi sentivo smarrito, ero io che mi chiedevo se Dio li avesse abbandonati.
Questo terribile dubbio che invadeva la mia mente sempre affamata di certezze, questo terribile travaglio che scuoteva la mia coscienza, questo sentimento di fragilità e di deserto, mi ha fatto desiderare, prima ancora che comprendere, la necessità dell’abbandono e del rifugio nel mistero di Dio.
All’inizio fu più un aggrapparsi che un abbandonarsi, con paura più che con fiducia, con la mia pochezza ed i miei timori più che con  fede incrollabile. Non so dire se mai io possa essere stato strumento di conversione per qualcuno di questi ragazzi, lo sa solo il Dio della vita. So per certo, però, che, ciascuno di loro è stato strumento di conversione per me!

di Mimmo Battaglia – Presidente FICT

Testo tratto da “I poveri hanno sempre ragione – storie di preti di strada” di Don Mimmo Battaglia, Cittadella Editrice, 2010