Arrivai a Bogotà, in Colombia, dove sarei rimasto per qualche giorno. Bogotà: città strategica con un peso demografico schiacciante rispetto ad altre città colombiane; caratterizzata da forti contrasti edilizi e sociali. Ai grattacieli e ai palazzi lussuosi della parte centrale, si contrappongono misere, ma colorate bidonvilles nella periferia, che mi apparvero grandi sassi variopinti.

…La reciprocità

Scatenarono in me un senso di disagio, un tremolio dell’anima, poiché, improvvisi, nei miei occhi e, ancor prima, nei miei pensieri, affiorarono tante mani, tanti visi…, occhi disperati, braccati; frammenti di realtà vissuta, che avevano aperto finestre nel mio mondo interiore; mi avevano chiarito dubbi e dato un senso al mio essere al passo con quegli uomini e con quel tempo. “E’ la solita schiacciante verità!” pensai, la disparità che è talmente intraprendente da mortificare qualunque approccio di tipo “umano”! No, non mi ero abituato, perché alla miseria, alla povertà alle privazioni non ci si abitua… Abituarsi significherebbe rassegnarsi e io, certo, non lo volevo.
Era già sera, quando la conferenza si chiuse, io e un gruppo di compagni di lavoro ci avviammo verso il primo ristorante, che avremmo trovato lungo la strada. La stanchezza del giorno che si faceva stropicciare gli occhi, non mi impedì di assistere a una scena che non dimenticherò mai: interi nuclei familiari che accattonavano; rovistavano nell’immondizia per un avanzo. Si muovevano in un silenzio parlante senza ribellione. “Qui la povertà è endemica – pensai – senza speranza!”.
Allorché un bambino di circa sette anni mi tese la mano…io, come tutti o tanti, frugai nelle tasche, e con un gesto meccanico, tirai fuori ciò che avevo e lo misi in quella manina. Il bambino scappò via e consegnò alla madre “l’elemosina” ricevuta. Beh! Mi sentii abbastanza a posto in  quel momento…avevo fatto una buona “cosa”!
Ma la notte non chiusi occhio.
L’immagine di quelle famiglie e dei loro notevoli sforzi per catturare “briciole” e, di più, il bambino dal viso sporco, ma bellissimo, non mi abbandonarono…Quel gesto ha messo a tacere la tua coscienza? Mi interrogai, pensando ai nostri bambini, figli di un occidente che consuma e spreca, che ricevono i nostri ammiccanti “Si, te lo compro! Si, te lo do! Si te lo meriti!” ma che sta diventando un occidente “consumato” dal baratro della contraddizione tra ciò che è negato e quanto elargito. I bambini più ricchi da una parte, che sanno spegnere le candeline per il compleanno come si gira un rubinetto; i più poveri dall’altra, colombiani o di qualunque altro paese, che conoscono tutto sulla vita della strada, ma che, alla prima occasione, si sentono “battuti” e “umiliati” dal coetaneo uguale, ma lontano.
I figli sono figli della vita, tutti senza distinzione, senza dubbi. Sono fori benedetti lanciati dal cielo dagli angeli e chi li coglie sa bene che non v’è fiore tra essi che appartenga a un Dio Minore. La differenza sta nel limite: il rispetto! Era ormai l’alba, quando mi chiesi con inquietudine “E tu, cosa farai?”.
Al mattino seguente mi sentivo stanco, all’inquietudine era subentrata una profonda tristezza. Avrei dovuto affrontare un altro giorno di Conferenza e non ero dell’umore adatto.
Sentii forte il desiderio di andare in chiesa. Mi accompagnò Marco, un caro compagno di viaggio, un ragazzone sincero, onesto, ma non credente. Entrammo. File di basse sedie, scarne, di legno scuro, fiancheggiavano, dando spazio, la navata centrale che conduceva a un povero, ma toccante altare, dominato da un Cristo essenziale, scolpito nel legno e ardente sopra innumerevoli candele accese. La tovaglia di un candido bianco dava luce al pavimento di pietra grigiastro. Respirai profondamente! Lì stavo bene!
Non subito, mi accorsi che una donna e il suo bambino, in ginocchio, percorrevano il corridoio.
“Pipetta, tu che te ne intendi, cosa stanno facendo?” mi chiese Marco, rapito da quella scena.
“O ringraziano per grazia ricevuta, o chiedono un voto!” spiegai. Quasi d’istinto, mi alzai e mi incamminai, seguendo a distanza quell’essenziale famiglia. Giunta all’altare, la donna accese una candela e la mise nelle mani del proprio bambino. Gli insegnava a ringraziare il Dio della vita! Mi avvicinai; il bambino si girò verso di me così che potei scorgere i suoi occhi…non li avevo dimenticati! E la madre…era lei.
La stessa “famiglia” che avevo incontrato la sera prima, a cui avevo fatto “l’elemosina”. Abbassai il capo. La mia vita in quel momento si fermò; perfino la tristezza, il senso di scomodità, anche l’aria si rarefece…di fronte a quella madre con suo figlio in ginocchio con la leggerezza delle farfalle, con in mano una candela ardente, davanti all’altare. Un’immagine trasparente, in cui non esistevano differenze tra sogni, speranze, amore; dove l’unico valore era l’unione.
Quella madre non aveva maturato un indelebile segno di inferiorità. Al contrario era a volto aperto, timido e fiero davanti all’altare e a noi. Non c’era infelicità, né solitudine in lei. Aveva dimostrato di affrontare i suoi problemi di esistenza con coraggio contro le malinconie della solitudine, il senso di vuoto e le frustrazioni causate dell’indifferenza altrui.
Accarezzai teneramente il bambino e guardai sua madre. Li incontrai!…sintesi di una reciprocità prodotta dall’amore. Capii cos’è la fede: la certezza della dignità e della libertà dell’uomo. E mi abbandonai in dio: Padre e Madre.

Mimmo Battaglia – Presidente FICT

tratto da “Un filo d’erba tra i sassi” di Don Mimmo Battaglia, Rubbettino Editore