“Ma… se ho 350 amici di facebook, allora cosa ci faccio di sabato sera solo davanti al computer?”.
Così un cabarettista ironizzava, qualche tempo fa in una trasmissione televisiva, durante uno sketch sul fenomeno dei social network. Quelli che noi continuiamo a chiamare “nuovi mezzi di comunicazione” interrogano ormai da più di dieci anni sociologi, psicologi, esperti di comunicazione.

“Sconfiggeremo le nostre solitudini e quelle dei nostri figli quando sapremo riaprire gli occhi alla bellezza dell’incontro con l’altro”

Dieci anni e più di una storia mondiale da cui noi, il mondo adulto, siamo in buona parte tagliati fuori, che continuiamo ad osservare da analisti scettici, e come tali in perenne ritardo sulle evoluzioni di un universo così veloce come quello della rete e del mondo di tecnologie che vi sono legate.
Più di dieci anni vogliono dire che i sedicenni di oggi sono cresciuti in un mondo in cui tutto è rispecchiato nel web, in cui i giochi stanno dentro ad una consolle più che in un cortile, in cui le voci dentro casa provengono dalle tv piuttosto che dalle persone che la vivono. Vuol dire che i sedicenni di oggi, di fronte ad un monitor si sentono a proprio agio più di quanto noi potremmo mai immaginare. Non sto esprimendo un giudizio di valore, mi limito per ora a fotografare un fenomeno. Di fatto mi pare necessario sottolineare questo dato di partenza: stiamo discutendo, la maggior parte di noi adulti, da semi-analfabeti, cercando di decifrare un linguaggio che non ci appartiene e che a stento biascichiamo; stiamo osservando, da etnografi improvvisati, un altro universo, parallelo al nostro, che in quell’universo semantico è cresciuto, cogliendone giorno per giorno ricchezze e pericoli, evoluzioni e restrizioni, bisogni e risposte.
Credo che possa essere fuorviante la tendenza ad interpretare il mondo del virtuale in modo univoco, sia in termini di pericolo che di opportunità. In realtà l’esplosione e la sempre più massiccia diffusione dell’utilizzo di internet segna di fatto una reale modifica di linguaggio, di percezione del mondo, una nuova idea delle categorie fondamentali della conoscenza, dello spazio e del tempo. Mi sento di ripetere con McLuhan che, anche nel caso della rete “il mezzo è il messaggio”. Mentre siamo occupati a decodificare e valutare i contenuti delle comunicazioni on line è come se ci sfuggisse che il messaggio di reale cambiamento che questi media consegnano non sta tanto nel contenuto quanto nella forma. Internet sembra essere il codice linguistico perfetto dell’attuale società liquida che descrive Bauman, che poi ne sia una conseguenza o piuttosto una concausa resta da capire. Ma è innegabile che attraverso il web si esprime perfettamente la parcellizzazione di una società occidentale sempre più priva di contenitori solidi. La rete è il regno della velocità, diverse ricerche dimostrano che il tempo medio di permanenza su una pagina internet è di pochi secondi. È il territorio del cambiamento, i siti più utilizzati nello scorso anno sono ormai desueti e lo stesso vale per le macchine ed i software. La rete è la terra delle possibilità, delle enormi quantità di informazione ma spesso a scapito dell’approfondimento, delle infinite opportunità di incontro, ma privo dell’aspetto di fisicità e compresenza, delle molteplici occasioni di fruizione culturale, scevre però da ogni progettualità formativa. È lo scenario di una pluralità enorme e sconcertante. In questo scenario ci muoviamo noi, uomini di questo tempo, ci muoviamo noi adulti con le nostre remore e con la curiosità del nuovo, ancorati a schemi percettivi differenti ed a bisogni che non trovano risposta. Si muovono i nostri ragazzi, con maggiore competenza e facilità d’uso, con la naturalezza del frequentatore consumato, ma anche loro con bisogni da soddisfare. Un nuovo scenario ed un nuovo linguaggio, ma in cui si esprimono ancora gli stessi immutabili bisogni dell’uomo, uguali e mai paghi dalla notte dei tempi.
Non è virtuale il bisogno di identità. E se spesso la rete è stata demonizzata da studiosi di ogni risma per la sua possibilità di dare identità nuove ed irreali a chiunque volesse, oggi il fenomeno sembra in controtendenza. Se dietro alle vecchie chat ed ai vecchi forum virtuali poteva nascondersi chiunque, celandosi dietro ad un nickname e ad un’identità ideale, dietro all’anonimato ed al mistero, i nuovi social network fanno emergere i veri volti ed i veri nomi, le storie, le passioni, le relazioni di uomini e donne reali, in carne ed ossa. Probabilmente è una delle cause del successo di questi siti di incontro: il riappropriarsi di sé stessi, l’eterno bisogno dell’umanità di raccontarsi. Gli album fotografici di facebook hanno lo stesso antico messaggio dei graffiti preistorici di Lascaux, dicono: Io ci sono! Questo è il mio mondo! Qui ed ora! I blog disseminati in questo universo elettrico raccontano storie, diari di vite qualunque che si ritagliano uno spazio di protagonismo. Qui ed ora. Esserci è un imperativo, ci ricordava Heidegger, ma non dobbiamo confonderlo con la smania di celebrità, col bisogno d’apparire, è lo stesso impulso a segnare il mondo della propria presenza che ha mosso l’arte e la letteratura dall’alba dell’umanità ai giorni nostri. Ci sono anche io. E dove altro, se non nel virtuale, i nostri giovani possono trovare spazi di protagonismo?
Le nostre città sono la risposta peggiore a questa domanda: gli spazi dei giovani sono quelli in cui sono considerati consumatori passivi di prodotti e di offerte di intrattenimento, nel migliore dei casi fruitori di qualcosa pensato da altri SU loro e PER loro. Dove trovare spazio? In una politica che si è trincerata nel suo mondo dorato e combatte per tenere fuori tutto il resto, che ha perso il contatto con la realtà della strada e della piazza, che parla solo in televisione o nelle aule chiuse dei consigli comunali, dei parlamenti? Smarrite le sezioni, la partecipazione di base, smarrito anche il senso profondo del voto a causa di meccanismi elettorali che riducono a nulla la rappresentatività delle scelte.
Dove possiamo vivere un protagonismo sano, responsabilizzante, nelle nostre città? Nei centri commerciali che anziché rispondere ai bisogni ne generano degli altri per avere libero accesso alle nostre menti ed alle nostre tasche? Nella Chiesa, sempre meno per strada, sempre più arroccata nei suoi templi e nelle sue sale parrocchiali? I territori delle parrocchie ospitano migliaia di giovani, eppure quelli che entrano davvero a contatto con le agenzie formative della Chiesa sono una manciata. I gruppi parrocchiali sono sempre più vuoti o chiusi all’esterno, eppure noi Chiesa sembriamo più attenti al numero dei “papaboys” nei grandi eventi mediatici, senza riuscire sempre a tradurre in quotidianità quel bisogno di spiritualità espresso ad alta voce.
Dove essere considerati realmente protagonisti? Nella famiglia e nella scuola? Tra adulti in crisi, in cerca a loro volta di senso e di regole, confusi tra modelli educativi appresi ma svuotati di valore dallo scorrere del tempo e nuovi modelli da ricreare su basi instabili e traballanti…
È duro ammetterlo, ma una grossa spinta all’isolamento virtuale di molti giovani dietro la luce azzurrina di uno schermo piatto l’abbiamo data noi. Noi adulti spaventati quanto e più di loro da una complessità che non sappiamo contenere e gestire, terrorizzati dalle responsabilità educative, se da un lato ci lasciamo volentieri sostituire dalla tecnologia, dall’altra la malediciamo leggendo in essa il segno della nostra resa pedagogica, ripetendo pedantemente il solito, vuoto e nostalgico “ai miei tempi…”
Parlo di questo con dei piccoli maestri, giovani della mia città raccolti in un Centro d’aggregazione. Sergej, un ventenne, mi racconta: “impugno un joystick da quando sono nato… una volta ho giocato per diciassette ore di seguito”. Gli fa eco Bernardo: “anch’io, una volta per più di un giorno. Chiusi in mansarda, io, un amico, la playstation e una cassa di Redbull…”. Gli chiedo: “ …e i vostri genitori?”  E la loro risposta è identica: “Nulla!”
Mi guardano quasi con sospetto a questa domanda, come a chiedersi che senso abbia, cosa c’entrino i genitori. La loro risposta, “Nulla”, è la cifra di un abbandono, di una solitudine da riempire con gli eroi armati di un videogame, con draghi e mostri da uccidere, principesse da liberare ed una cassa di energizzante per tenersi su. C’è tutto in questa risposta, in questo “Nulla”. Nulla, come nella Storia infinita. Un nulla che assorbe ogni cosa che conta, che fa sparire pezzi di verità e di umanità. Ma poi gli stessi giovani ci ridono sopra,  e parlano con distacco di queste giornate che non gli appartengono davvero, non gli rassomigliano più: non è quella la vita. Quello che davvero conta sono gli amici, uscire per strada, condividere momenti reali, guardarsi negli occhi. Le nottate passate a giocare sono cose da ragazzini, cose da Nerd, da sfigati. “I videogiochi servono solo a divertirsi un po’, nessuna fuga nel virtuale”, mi dice Mario, gigante diciassettenne che trascorre le sue giornate tra i laboratori musicali del Centro d’aggregazione ed il campo da rugby, “e internet è solo un modo di comunicare, più rapido ed economico di altri. Una volta c’erano le lettere, ora c’è MSN, ma il senso è quello: trovarsi, parlarsi, incontrarsi. Perché noi abbiamo bisogno soprattutto degli occhi, del linguaggio del corpo.”
Scopro nuovi mondi parlando con loro, ascoltandoli. Scopro un’autenticità che riempie la mia e la loro solitudine. Mi sento fortunato per questo: i ragazzi di cui tanto si parla, per me diventano veri, diventano loro. Hanno le facce colorate dal sole dell’estate che incomincia, hanno giorni pieni di vita da attraversare con passione, hanno amori, passioni, rabbia, voglia di ridere di tutto e tutti, non sono mostri da cronaca nera o aspiranti veline in coda per un momento di gloria. Hanno un disincanto esibito come un’arma, come uno scudo in difesa della fragilità dei propri sogni. “Virtuale… i sogni sono virtuali – mi dice Gigi, vulcanico diciannovenne – se io penso “voglio diventare questo” o “la mia vita sarà così” o “ti amerò per sempre”… tutto questo è virtuale, è un sogno, non esiste qui ed ora. Ma c’è un’altra dimensione, il Progetto! Quello è il punto d’incontro tra virtuale e reale, tra ciò che è ora e ciò che sogno”. Ascolto, e imparo qualcosa.
Imparo che le relazioni virtuali non esistono, sono solo giochi se non corrispondono a relazioni concrete. Che ricevere gli auguri di compleanno da un’infinità di persone non ha valore se a ricordarglielo è stato il portale di un network, se non c’è dietro affetto, pensiero costante, intimità.
Imparo che la rete è anche una scuola di politica, è un campo di battaglia. Che mentre i nostri rappresentanti urlano nelle aule parlamentari e costruiscono un mondo che rafforza i confini ed i nazionalismi, i giovani vivono il volto buono della globalizzazione, sentendosi davvero cittadini del mondo, condividendo informazioni che sfuggono dai canali ufficiali, tessendo reti che parlano tutte le lingue degli uomini, crescendo in democrazia, in umanità, nel desiderio innegabile della giustizia sociale.  E forse questo spaventa. Spaventa al punto da sentire il bisogno di controllare, censurare, demonizzare, raccontando sempre e solo la faccia oscura del web, la pirateria, la pornografia, l’isolamento, il cyber bullismo. O, al contrario, da voler piegare questo strumento alle logiche del libero mercato, inventando strategie diaboliche di marketing.
E quando Veronica, sedici anni, mi confida: “la mia vita è strapiena, ma non mi serve a niente”, mi convinco che la diatriba manichea tra virtuale e reale sia spesso un falso problema. Serve forse a trovare alibi, a mettersi meno in discussione, a chiudersi al riparo dei nostri “mio figlio sta sempre al computer”. Con le nostre difficoltà a comunicare, dovremmo ricominciare dall’ascolto reale, comprendere che se sempre più spesso ci ritroviamo a parlare da dietro uno schermo è a causa del nostro analfabetismo emotivo e relazionale che ci rende difficile ogni rapporto reale, che ci fa sentire costantemente indifesi e minacciati, giovani ed adulti allo stesso modo. Che il virtuale è un amplificatore, forse un po’ distorto, del mondo reale. La dipendenza da internet, i siti estremisti, i blog a favore dell’anoressia, le migliaia di pagine dedicate alle droghe che trovano consensi sempre più ampi, non sono virtualità. Esistono. Ma sono solo uno specchio possibile del nostro mondo e del nostro tempo. Sono il risultato di un complesso interfacciarsi  tra ciò che siamo e il modo in cui ci rapportiamo agli altri. Sono il chiaroscuro, l’inter-tempo gramsciano tra il vecchio mondo che è morto ed il nuovo che non riesce a nascere. O forse sono già parte di un nuovo mondo che è nato ma senza rassomigliarci, che non riconosciamo più come nostro.
Di fronte a questa complessità che paralizza e mette paura, qual è il nostro compito? Qual è il compito di educatori, politici, adulti? Innanzitutto, ripartire dal reale, senza alibi e senza paure. Smarcarci dalla nostra empasse educativa, dal nostro non riuscire ad immaginare l’Uomo che verrà. Vivere pienamente il nostro tempo e persino le nostre contraddizioni, così da diventare compagni di strada credibili ed accettabili per i nostri ragazzi. Combattere innanzitutto la “nostra” solitudine, le nostre fughe nel virtuale nero della disillusione, del pessimismo, della resa passiva al disvalore, ai miti di moda del successo e del denaro, al relativismo etico. Prima di interrogarci sui valori dei giovani chiediamoci serenamente ma con chiarezza che fine abbiano fatto i nostri. Coltiviamo le relazioni, il gusto della parola e dello sguardo. Non è scimmiottando i giovani che diventiamo moderni ed adeguati a loro, non competendo con i nostri figli su chi ha più diritto di utilizzare il computer o di scegliere il canale da vedere, e tantomeno risolvendo questi conflitti acquistando un altro computer, un’altra tv. È riscoprendo la nostra umanità, l’essenziale a cui da sempre tutti aspiriamo e testimoniandolo con la vita e con le scelte che diventeremo risposta. Che diventeremo domanda. Domanda di senso, domanda che fa crescere e mette in discussione, domanda che si fa critica. Mi dice la giovane Alessia: “gli adulti si lamentano ma fanno come noi, non propongono un’alternativa”. E allora non serve nulla maledire il nichilismo, l’ospite inquietante, se non lo si guarda dritto negli occhi, se non ci si scopre e ci si propone come diversi, alternativi. Se davvero esiste il nichilismo, con il suo carico inquietante di solitudini, vuoti di senso e fughe nel virtuale, nelle droghe, nel limite, chiediamoci seriamente chi lo ha fatto entrare in casa? Chiediamoci perché 800.000 giovani, lo scorso primo maggio, cantavano a squarciagola “…non è così il mondo che vorrei!”.
Abbiamo bisogno, noi adulti innanzitutto, di speranza. Abbiamo il dovere della speranza. Abbiamo diritto alla speranza che ci siamo negati. Sconfiggeremo le nostre solitudini e quelle dei nostri figli quando sapremo riaprire gli occhi alla bellezza dell’incontro, alla luce della sacralità accesa nell’altro, all’attesa del mattino, perché ci sentiamo ancora, come sosteneva il mio maestro Tonino Bello, “più figli del crepuscolo che profeti dell’avvento”. In piedi verso l’alba allora, con le radici piantate nel nostro tempo e le ali protese verso il sogno. Verso quel sogno che, come ci insegna il giovane Gigi, non è una fuga onirica, non è virtuale perché diventa progetto, costruzione. Diventa educazione e quindi liberazione. Diventa strada. Da percorrere insieme, con coraggio ed autenticità, i nostri figli e noi. La fuga nel virtuale, come ogni fuga, è la reazione di un animale spaventato di fronte al pericolo. Gli etologi insegnano che l’altra reazione possibile è la lotta. Io ho scelto di lottare.

di Mimmo Battaglia – Presidente FICT