Per affrontare la discussione sulle proposte di modifica dell’art. 73 del DPR 309/90 occorre dapprima sottolineare i principi fondamentali che la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche ed Intercear hanno sempre inteso affermare.
Il carcere è un territorio prolifico di disagio e di sofferenza che induce gli operatori pubblici e privati a fornire risposte salvifiche che rispondano ad esigenze di sicurezza sociale e costituiscano alternative alla pena con lo slogan “il carcere non recupera”.
Il carcere, in Italia, colpisce soprattutto i più disagiati
Ci riconosciamo nel concetto di “società educante” quale valore, che sembra stemperarsi nella paura e nella diffidenza nei confronti del diverso, richiamando la società a quel senso di responsabilità legato alla solidarietà ed alla necessità di rappresentare una comunità inclusiva e non esclusiva..
Riteniamo che l’unica risposta valida è la creazione di contesti specializzati nel trattamento del detenuto tossicodipendente per separarlo dal contesto carcerario è giungere, contestualmente, alla sua riabilitazione psico-fisica. Elemento fondante resta il lavoro di rete con i Servizi in cui pubblico e privato, mantengano la rispettiva identità e propongano la propria cultura dell’intervento per esercitare una funzione di stimolo reciproco.
Il privato sociale ritiene che la risposta più adeguata vada nel senso della giustizia riparativa piuttosto che nell’inasprimento della sanzione, perché venga favorito per le persone con problemi di dipendenza il processo di inclusione sociale voluto dalla legge.
Le reti sociali partecipano ai progetti di “messa alla prova” previsti in fase di sospensione del procedimento penale per persone con problemi di dipendenza da sostanze, sempre nell’ottica dell’inclusione sociale.
La risposta più adeguata riposa nella necessità di instaurare un rapporto di grande collaborazione con l’Autorità Giudiziaria offrendo una risorsa fondamentale per rispondere al sistema sanzionatorio che, negli ultimi trent’anni, si è modificato sensibilmente.
La collaborazione con l’Autorità Giudiziaria parte dal concetto di “accoglienza” per rispondere al bisogno dell’individuo di modificare il proprio stile di vita evitando un percorso carcerario distruttivo caratterizzato dal meccanismo della “porta girevole”. Ma, nel contempo, risponde anche al bisogno della collettività di vivere in una società sana.
E’ un dato incontrovertibile che la misura alternativa riduce il comportamento delittuoso recidivante, ma ancor più lo è qualora la misura sia caratterizzata da un intervento riabilitativo che agisce sulla persona e non solo sul contesto sociale in cui tende a reinserirsi.
E’ alta la percentuale dei ragazzi tossicodipendenti che, gravati da procedimenti penali e condanne da eseguire, sono riusciti a portare avanti con successo il percorso in Comunità, ma è ancor più alta la percentuale di coloro che, portando il programma a compimento, ha evitato ricadute nell’uso e nella commissione di reati.
L’illecito penale è un momento che porta la persona a contatto con un sistema caratterizzato da regole precise che non possono essere sottovalutate né disconosciute.
La risalita avviene solo se questa consapevolezza si radica nell’individuo, al quale sono offerti strumenti e non escamotage per trasformare i propri errori in risorse per un nuovo stile di vita. Questo strumento certamente non può essere il carcere con il suo mondo di regole non scritte che favoriscono l’irrigidimento e la cultura dell’illegalità. Al contrario, si tratta di individuare strumenti in grado di sviluppare la consapevolezza dell’individuo nel cercare attraverso modalità legali la convivenza con gli altri.

Da sempre la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche e l’Intercear richiedono a gran voce che un intervento sul DPR 309/90 che riveda l’intero impianto normativo: Non sono sufficienti interventi spot come quelli che sono oggi in esame. Come si vede dalla documentazione che ci viene offerta, gli interventi sulla parte sanzionatoria nel corso di questi anni sono stati numerosi e contraddittori. Abbiamo assistito a passi avanti nel processo di inclusione e ritorni verso la strada della repressione tali da vanificare l’impegno del privato sociale nel recupero e la volontà del singolo di riappropriarsi della propria esistenza.
Solo la Corte Costituzionale è riuscita a ristabilire un certo equilibrio che oggi, con la proposta di legge n. 2160 di iniziativa dell’Onorevole Molinari ed altri, rischia un forte ribaltamento che mette a dura prova il ruolo educante della società.
E’ inaccettabile poter pensare ad un sistema sanzionatorio che vada a colpire fortemente il disagio inasprendo le pene per i fatti di lieve entità sia per le cessioni di droga pesante che leggera. Sono questi comportamenti a subire la maggiore censura. La riforma del comma quinto, nonché l’abolizione dei commi 5 bis e 5 ter riducono drasticamente le possibilità riparatorie che il legislatore ha inteso inserire in omaggio ad una cultura che vede sempre di più la società partecipe del sistema giustizia. Una controtendenza inaccettabile che soppianta la nostra idea di sanzione sociale a favore di una giustizia repressiva ed esclusiva.
Basti pensare al fatto che l’aumentare il massimo edittale per i fatti di lieve entità pregiudica al reo la possibilità di accedere ai percorsi di messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis del codice penale. Assunto che viene confermato dall’abolizione del comma 5 bis.
La Messa alla prova, unico reale istituto di Giustizia Riparativa, consente la riparazione del sé e della relazione con la società che ne trae sicuramente più beneficio che da una sentenza “esemplare”
L’illecito penale è un momento che porta la persona a contatto con un sistema caratterizzato da regole precise che non possono essere sottovalutate né disconosciute. La risalita avviene solo se questa consapevolezza si radica nell’individuo, al quale sono offerti strumenti e non escamotage per trasformare i propri errori in risorse per un nuovo stile di vita. Questo strumento certamente non può essere il carcere con il suo mondo di regole non scritte che favoriscono l’irrigidimento e la cultura dell’illegalità. Al contrario, si tratta di individuare strumenti in grado di sviluppare la consapevolezza dell’individuo nel cercare attraverso modalità legali la convivenza con gli altri.
Il benessere di una comunità sociale si misura sulla sua capacità di prendersi cura delle sue componenti e di sé stessa come insieme: una comunità responsabile, relazionata, capace di costruire condizioni di equità sociale nel rispetto di tutte e di tutti.
E’ un approccio innovativo e dinamico al reato che permette di comprendere come la società civile abbia bisogno di un’etica della comunicazione che offra alle norme la conferma di validità legittimandole anziché rinforzarle.

Intercear e Federazione ritengono che sia necessaria la revisione della normativa quadro deve contenere:
– Un sistema procedurale che renda automatica e universale per i soggetti con dipendenza sottoposti a processo, già nella fase dibattimentale, la possibilità di accedere a percorsi di recupero qualora la pena editale massima possibile per il reato ascritto sia inferiore ai limiti previsti per l’accesso alle misure alternative.
– La creazione di un fondo per le politiche di prevenzione e di reinserimento lavorativo

Con riferimento alla proposta di modifica n. 2307 su iniziativa dell’On. Magi ed altri, occorre evidenziare come si attesti, invece, sui criteri evidenziati riducendo da un lato la soluzione repressiva ed ampliando i margini riparativi costruendo una fattispecie autonoma di reato per i fatti di lieve entità.
In questo modo porrebbe fine alla estenuante diatriba sul concetto di circostanza attenuante che, in certi periodi storici, portava a condanne durissime nell’impossibilità di essere bilanciata adeguatamente. Questa situazione incresciosa con il tempo è stata risolta ed ancor più lo sarebbe con la proposta in esame.
Tuttavia per estrema coerenza da sempre ci attestiamo sul ruolo educante della società che potrebbe perderà la sua valenza fondamentale.
Come si ripete auspichiamo la strutturazione di una serie di interventi preventivi e dissuasivi nei confronti di uno stile di vita che, invece, viene ad acquisire una valore che travalica aspetti etici legati al benessere ed alla salute, diritto costituzionalmente garantito.
Se pure, dunque, l’introduzione dell’art. 73 bis risponde ai principi etici e di realtà mantenendo in vita un impianto sanzionatorio agevole ed adeguato alla realtà personale del reo, meno convincente appare il comma quarto del novellando articolo che consente l’impunità a chi coltiva un numero limitato di piante di cannabis destinate ad esclusivo uso personale.
A prescindere dall’incertezza che si viene a creare sul dato ponderale aprendo la strada a potenziali discriminazioni giudiziarie, ci pare di assistere a norme che vanno nel senso della liberalizzazione
Da oltre trent’anni siamo impegnati nella lotta alle dipendenze ed agli stili di vita ad esse sottese per cui non possiamo non affermare, senza incorrere nell’incoerenza morale, che l’utilizzo della cannabis, così come di altre sostanze legali ed illegali che creano dipendenza, sia un disvalore.
Sostenere la proposta così come formulata ci è sinceramente difficile.

Ci piace, dunque, ribadire con forza l’avvio partecipato di riforma dell’intero sistema normativo sulle dipendenze, fermo ancora a 30 anni fa, al DPR 309/90.

Avv. Luciano Squillaci, Presidente FICT, e Avv. Marco Cafiero, Consulente giuridico FICT

link al video per vedere l’audizione completa: https://webtv.camera.it/evento/17222