La sala degli incontri, in Accoglienza, scolpita di grigiore contro la luce del giorno carico di pioggia.
Le voci sommesse dei miei ragazzi non facevano rumore; solo, qua e là, le file di sedie scavate e secche rompevano il silenzio. Lo scroscio improvviso della pioggia mi aveva distratto. E, in fondo alla fila di destra, con il capo chino, chiuso nella morsa delle proprie mani, i capelli scuri che le avvolgevano le spalle, la figura bieca di una giovane donna. Era lì, ma soffriva.

Alzò lo sguardo. Riluttante lo abbassò. Poi, non l’alzo più.
La stanza sembrava inghiottita in una quiete malinconica. Mi avvicinai e le chiesi: “Come stai?”,
“Niente, niente!”, con repulsione, rispose.
Insistetti e riproposi la stessa domanda, alla quale, inevitabilmente, ebbi la medesima risposta.
Non mi scoraggiai, fa parte del mio essere e, credendo in lei, mi arrivò pungente il suo dolore. Mi trafisse, come sempre quando mi sento  impotente di fronte alle pene della vita. Un chiarore scolpì il suo volto, facendo chiarezza nei suoi occhi, che, intanto, mi fissavano.
Sentii la sedia trascinarsi sul pavimento duro e scivoloso dall’umidità. La condussi fuori, nello spazio antistante. Era lì, ferma, in piedi; Marta, così si chiamava, cercò istintivamente nei miei occhi qualcosa che l’aiutasse a parlare, ad aprirsi. Incalzai: “Dimmi, cosa ti succede, cosa ti è capitato?”.
Marta si lasciò andare. “Grazie, è troppo bello quello che state facendo per me; vi ringrazio, ma io non merito niente!”.
Le sue parole scorrevano come un fiume in piena. “Non merito niente! Non riesco nemmeno a fare la doccia!”.
Diventò più buio là. Chiusi gli occhi e chinai il capo, per meglio accogliere le sue parole, il suo smarrimento, la sua pena. “Perché?”, urlai, “Perché?”Ancora una volta mi sentii piccolo di fronte alla sofferenza. Alzai lo sguardo al cielo. Marta, passandosi le mani tra i capelli, continuò:
“Troppe mani hanno toccato il mio corpo! Voglio farla finita, mi sento sporca. Nessuno potrà restituirmi ciò che ho perduto!”.
Quale amarezza e quanto dolore nelle sue parole! Avevano squarciato l’ululato del vento. E intanto camminavamo. Una raffica di vento sventagliò per quel cortile, avanti e indietro, come i miei pensieri.
La mia era compassione, pensai; volevo aiutarla, perché così avrei aiutato me stesso e tutti coloro che gridavano, in quell’istante, in un angolo della terra. Non potevo tradirla.
“Nessuno può restituirmi il mio corpo”, Marta continuò. Poi chiuse gli occhi. Si vedeva che ogni suo movimento era racchiuso, rannicchiante come una conchiglia, la faceva star bene, si riparava da se stessa. Nulla avrebbe potuto farle del male.
“Marta!”, la mia voce la scosse, “Guarda, guarda nell’acqua!”. Ai nostri piedi si era formata una pozzanghera d’acqua,una delle tante pozze che cerchiamo di evitare per non affondare il passo. “
“Guarda”,la sollecitai . ..”ti va di bere di quest’acqua?”

E lei, con voce infastidita e quasi sprezzante “Noo! Perché dovrei farlo? E’ acqua sporca!”.
“E’ sporca come la tua vita”,  quasi le gridai con l’intento di scuoterla.
“Mi stai offendendo, non hai capito niente…non hai capito niente di me!” Gridò selvaggiamente.
“Guarda meglio”, insistetti, “e in quest’acqua sporca, forse, scorgerai dell’altro!”. “Io vedo solo acqua sporca!” E mentre lo diceva si chinò; disperatamente i suoi occhi annaspavano di qua e di là. Sollevò le spalle, mentre io cercavo di scoprire in lei un barlume che mi facesse capire. Poi le dissi:“Non essere inquieta. Chiniamoci insieme, così vedremo meglio! Forse in quest’acqua stagnante c’è dell’altro”.

“Oh! I miei occhi sono lì, riflessi! Ma non ne scorgo il colore”.
“Guarda ancora, Marta, coraggio! Non stancarti!”, continuai.
La fissavo. Il suo viso si apriva come l’arcobaleno. Scorsi nei suoi occhi la curiosità. “E’ già qualcosa”, pensai.
“Guarda, guarda!”, insistetti ,“non smettere!”.

“Che bello!”, improvvisamente esclamò: “Quanto è bello!!” scuotendo le nubi e regalando alla vita un debole sorriso. “Ma è già tanto”, dissi a me stesso.
“Vedo riflesso il cielo…quel lembo di cielo che è lassù”, incalzò.
Alzando lo sguardo e indicando il cielo con il dito, con la meraviglia di cui solo i bambini sono capaci. Così se ne rimase lì, con il cielo negli occhi riflessi nell’acqua. Le lacrime presero il sopravvento, scivolando fin sul collo del maglione rosso, sbiadito, mentre i singhiozzi smorzati le gorgogliavano in petto.
Piangevo anch’io. Marta s’interruppe. Si sporse un po’ e mormorò qualcosa sottovoce. Poi, istintivamente, dignitosamente, si voltò verso di me e mi abbracciò.
L’abbracciai. E i miei ragazzi lì a coronare quel momento.
Quanta liberazione in quel pezzo di cielo che lì, proprio nella pozzanghera, aveva compiuto il miracolo. La vita ci aveva restituito Marta, persona unica, speciale!
Mi piacerebbe spiegarti esattamente le sensazioni vissute quel giorno. Solo le parole “Amore autentico” possono rendere l’idea.
Oggi Marta è moglie e madre, ed è felice.
Perché in ognuno di noi c’è un pezzo di cielo. E va difeso, sempre! E’ li che si nasconde il senso e il segreto della nostra dignità.

Mimmo Battaglia – Presidente FICT

tratto da “Un filo d’erba tra i sassi” di Don Mimmo Battaglia, Rubbettino Editore